Macbeth: Follia, cupidigia e destino di Oscar Serino, Basilio Sciacca

Monarchia contro tirannia: due diversi modi di essere Re


Nell’opera, Duncan viene chiamato più semplicemente “re” mentre Macbeth diventa in breve tempo il “tiranno”. La differenza tra i due modelli di sovrano emerge con chiarezza in una conversazione che ha luogo nell’atto IV, scena III, quando Macduff incontra Malcolm in Inghilterra. [F9] [I11] [Es12] [E14].
Allo scopo di mettere alla prova la lealtà di Macduff verso la Scozia, Malcolm finge di desiderare un sovrano persino peggiore di Macbeth. Descrive a Macduff alcuni tratti negativi, per esempio l'ambizione sfrenata e il temperamento violento, che ben si adattano al personaggio di Macbeth. D’altro canto Malcolm afferma che “… Le virtù che si addicono ad un re, come giustizia, sincerità, temperanza, fermezza, generosità, perseveranza, clemenza, affabilità, devozione, pazienza, coraggio, fortezza, io non ne ho neanche un pizzico” (Atto IV, scena III).
Il suo modello ideale di sovrano concentra in un’unica persona l’ordine e la giustizia ma anche la clemenza e la benevolenza. Sotto il suo comando, i sudditi ricevono un compenso adeguato ai propri meriti, infatti Duncan nomina Macbeth “signore di Cawdor” dopo che egli è tornato vincitore dalla battaglia contro gli invasori. Fondamentale è poi la fedeltà del re alla Scozia a prescindere dai propri interessi personali.
Macbeth, al contrario, riesce a portare solo caos in Scozia: il maltempo e gli eventi sovrannaturali non sono altro che simboli del disordine politico. Egli non è affatto il garante della vera giustizia, anzi si lascia trascinare in un vortice di omicidi verso tutti coloro che considera nemici. Impersonando la tirannia, è logico che sia un dovere morale di Malcolm spodestarlo affinché la Scozia possa tornare a avere un vero re.


Nella sua prima entrata in scena, re Duncan esegue due azioni tipiche di un re: punisce i cattivi e ricompensa i buoni. Quando gli viene riferito che il signore di Cawdor ha tradito e Macbeth si è comportato da eroe, egli dice: “Quel signore di Cawdor non tradirà più gli interessi che più ci stanno a cuore: andate, fate bandire la sua morte immediata, e col titolo che costui ebbe già, si saluti Macbeth” (Atto I, scena II).

Non appena le streghe [E15] salutano Macbeth con gli appellativi “signore di Glamis”, “signore di Cawdor” e “futuro re” (Atto I, scena III), egli viene a sapere che Duncan ha deciso di nominarlo “signore di Cawdor”. Questo fatto mette in moto la sua fervida immaginazione che lo spinge a mormorare: Glamis, e signore di Cawdor: il meglio è da venire… Due verità, intanto, sono state dette, che sono come i lieti prologhi al fastoso atto del tema imperiale” (Atto I, scena III). La metafora di Macbeth è drammatica, quasi melodica; sembra immaginarsi in procinto di fare il suo primo ingresso solenne da nuovo re di Scozia [F10], un re dei re.

Mentre Duncan sta commentando il tradimento dell’ex signore di Cawdor, ecco che entra quello in carica: Macbeth, appunto. Il re saluta Macbeth chiamandolo “mio nobilissimo cugino” (Atto I, scena IV) e dice chiaramente che gli è molto grato per la fedeltà dimostrata alla corona. Macbeth replica con una modestia eroica dicendo: “il servizio leale che io debbo prestare a voi, si paga da sé nell'atto stesso in cui si compie…” (Atto I, scena IV). In sostanza, afferma che la semplice consapevolezza di aver fatto la cosa giusta per il sovrano lo riempie di soddisfazione. Detto questo, aggiunge: “La parte di Vostra Altezza è quella di ricevere i nostri doveri: e i nostri doveri sono, per il trono vostro e per la Vostra Maestà, dei figli e dei servitori, i quali non fanno altro che quello che debbono, facendo ogni cosa con sicura considerazione per l'amore e l'onore vostro” (ibidem). L’idea è che ogni suddito deve fare tutto il possibile per garantire l’incolumità del sovrano e allo stesso tempo guadagnarsi l’affetto e il rispetto reali. Il discorso di Macbeth raffigura Duncan come il padre amorevole di una famiglia felice ma Macbeth sta già progettando di ucciderlo.

Quando Lady Macbeth riceve la lettera del marito a proposito delle profezie delle streghe, la sua unica preoccupazione è che l’indole del marito sia “troppo imbevuta del latte della bontà umana, per prender la via più breve” (Atto I, scena V). però si rassicura da sola, confida nella propria capacità di convincimento. Si rivolge a Macbeth (seppur fuori scena) tenendo la lettera in mano e dicendo: “Affrettati a venir qui, affinché io possa versarti nell'orecchio il mio coraggio, e riprovare, col valore della mia lingua, tutto ciò che ti allontana dal cerchio d'oro, col quale il destino e un aiuto soprannaturale sembra ti vogliano incoronato” (ibidem). Dal punto di vista dello spettatore Lady Macbeth appare come una tentatrice ossessiva ma il personaggio si vede come un agevolatore di intenti condivisi. Lo vuole assillare al punto da fargli rompere gli indugi, unico ostacolo verso il trono.

Subito dopo entra in scena il protagonista che riferisce alla moglie la notizia dell’arrivo imminente di re Duncan. Lady Macbeth sentenzia la condanna a morte del re, avvertendo Macbeth di non commettere passi falsi: dovrà dare un cordiale benvenuto, per non destare sospetti. La signora sembra esitare perché si lascia scappare: “Bisogna occuparci di colui che arriva: e voi affiderete a me il disbrigo della grande faccenda di questa notte, che sola potrà dare a tutte le nostre notti e i giorni avvenire assoluta sovrana autorità e signoria...” (Atto I, scena V). Gli sta intimando di fidarsi ciecamente di lei e di non mettere in discussione il piano che ha in mente grazie al quale diverranno re e regina. Tutto ciò che le interessa si chiama “potere”.

Arriva il re, il quale saluta la diabolica signora con una frase spiritosa a proposito della difficoltà di essere un sovrano: “Guardate, guardate, ecco la nostra riverita castellana. L'amore onde gli altri ci accompagnano, qualche volta è per noi una molestia, ma nonostante noi lo accettiamo ringraziando, in quanto che esso è amore. Con questo io vi insegno, come voi dobbiate pregare Dio di ricompensarci per le vostre pene, e ringraziar noi per il disturbo che vi arrechiamo” (Atto I, scena VI). Il discorso di rito di Duncan segue l’antica usanza dell’ospite di scusarsi per il disturbo a cui segue una scontata replica dell’anfitrione: “È un piacere accoglierla”. Nominando le fatiche che sopportano coloro che lo amano, egli ammette di rendersene conto e di rammaricarsene. Allo stesso tempo queste sono le prove dell’amore che i suoi fedeli sudditi provano per lui, dunque non gli resta che ringraziarli.

Mentre il re sta cenando Macbeth riflette sulla natura del sovrano-amico: un buon uomo, né arrogante né egoista. Parlando tra sé e sé: “… Questo Duncan ha esercitato così mitemente i suoi poteri, è stato così puro nel suo alto Ufficio, che le sue virtù, come angeli dalla voce di tromba, grideranno alla dannazione eterna della sua soppressione” (Atto I, scena VII).

Il giorno successivo all’omicidio di Duncan, Ross parla con un anziano il quale ha una lunga memoria ma non ricorda nulla di così abominevole: “Settant'anni io posso ben ricordare: in un giro di tempo come questo ho visto ore tremende e cose strane; ma questa notte atroce ha ridotto ad una inezia tutto quello che sapevo fino ad ora” (Atto II, scena IV). Ross risponde: “Buon padre, lo vedi? Il cielo, come sconvolto dall'atto umano, minaccia la sua scena sanguinosa”. Il re è stato ucciso nonostante fosse amato e rispettato dal popolo, quindi si è trattato di un atto contro natura. A tale proposito i due parlano degli strani eventi capitati di recente. Essi ignorano che il colpevole è Macbeth eppure finiscono indirettamente per contrapporlo a Duncan: “Martedì scorso un falco, mentre montava in altura, fu ghermito, ed ucciso, da un gufo cacciatore di topi” (ibidem). Considerandola una metafora, l’altura sarebbe il culmine del regno, il falco sarebbe Duncan e il gufo sarebbe Macbeth che anziché cacciare un topo, come secondo natura, ha ucciso il falco. Come se ciò non bastasse: “… E i cavalli di Duncan (cosa molto strana, e certa) così belli e veloci, i gioielli della loro razza, divennero improvvisamente d'indole selvaggia, spezzarono le loro sbarre nella stalla, e si slanciarono fuori rifiutandosi all'obbedienza, come se volessero far guerra al genere umano”. I cavalli prediletti da Duncan erano proprio Macbeth e signora. Pur avendo ricevuto i favori del “padrone” (Atto II, scena IV), essi gli si sono rivoltati contro come delle bestie feroci. Qui Shakespeare vuole sottolineare che il regicidio è stato un atto contro natura.

In una conversazione tra Lennox e un lord scozzese Macbeth viene apostrofato da entrambi come tiranno: “… Sento dire che in seguito a delle franche parole, e perché rifiutò la sua presenza al banchetto del tiranno, Macduff è in disgrazia (Atto III, scena VI). Dal loro dialogo si capisce che la vita sotto un tiranno è una vita fatta di terrore e menzogne. Avendo però Macbeth molte spie al suo servizio, devono misurare le parole. Infatti all’inizio della scena, dichiarano che fortunatamente l’uno ha capito da che parte sta l’altro, ciò dalla stessa parte: “Le mie precedenti parole non hanno fatto altro che incontrarsi col vostro pensiero, il quale potrà indagare più oltre” (ibidem).

Lennox dice: “Il pio Duncan fu pianto da Macbeth: sfido, era morto!” (Atto III, scena VI). Questa battuta sarcastica descrive sia l’apparenza di Macbeth – era addolorato per la morte del re – sia la vera natura del protagonista. Lennox continua il discorso ridicolizzando Macbeth in vari modi. Banquo è morto per aver fatto una passeggiata dopo il tramonto e deve essere stato Fleance ad ucciderlo perché Fleance è scappato. A proposito, non è stato orribile per Malcolm e Donaldbain uccidere il proprio padre? Ovviamente Macbeth era così addolorato per Duncan che ha pensato bene di uccidere gli unici due testimoni, cioè i suoi attendenti. Se solo Malcolm, Donaldbain e Fleance fossero nelle mani di Macbeth, egli darebbe loro qualche lezione di parricidio!

Dopo un po’ Lennox mette da parte il sarcasmo e comincia a parlare di Macduff. È venuto a sapere che non è più nelle grazie di Macbeth a causa di alcune parole grosse e perché non è riuscito a presentarsi al banchetto. Chiede al suo interlocutore dove potrebbe trovarsi Macduff. Il lord non lo sa. Macduff si sta dirigendo verso la corte inglese dove Malcolm è stato ricevuto dal Re Edoardo il Confessore. Macduff vuole chiedere al re d’Inghilterra di inviare in Scozia le truppe di Northumberland e Siward, due celebri e valorosi capitani. In caso affermativo, la Scozia sarebbe libera dalla tirannia. Finalmente si potrebbe “… Dar di nuovo vivande alle nostre mense, e sonno alle nostre notti; liberare dai pugnali insanguinati le nostre feste ed i nostri banchetti, rendere omaggio sincero e ricevere liberi onori” (Atto III, scena VI).

Sotto la dittatura di Macbeth, la paura dei suoi “pugnali insanguinati” incupisce ogni attimo dell’esistenza. In contrapposizione a questo regno di terrore, un vero re gode di “omaggio sincero” e assegna come ricompensa “liberi onori”, liberi in quanto il beneficiario non è costretto a comportarsi in maniera servile quando li riceve.

Quando Macbeth va in cerca delle streghe, le maledice, le chiama vecchie megere e pretende che rispondano alle sue domande. Quelle gli fanno delle profezie, l’ultima delle quali afferma che banquo sarà il capostipite di una lunga serie di re che giungerà fino a Giacomo, re di Scozia e Inghilterra. Macbeth resta basito tanto che la prima strega gli promette un po’ di allegria: “Incanterò l'aria perché suono n'esca, e voi ballate la vostra tresca; sicché quel gran re possa dir cortese che ognuna di noi omaggio gli rese” (Atto IV, scena I). Fa dunque del sarcasmo. Macbeth resta un tiranno anche per le streghe e non merita rispetto. Proprio come le streghe rappresentano l’esatto contrario del suddito fedele, Macbeth rappresenta l’esatto opposto del re buono e saggio.

In Inghilterra, Macduff supplica Malcolm di guidare un esercito contro Macbeth. Malcolm acconsente ma non prima di aver messo alla prova le intenzioni di Macduff. Gli preme scoprire se è solo una questione personale o se tiene veramente al destino della Scozia.
Per indurre Macduff a scoprire le proprie carte, comincia dicendo che la Scozia soffrirà ancora di più dopo la disfatta di Macbeth in quanto egli, una volta diventato re, sarà ancora più crudele. “…La mia povera patria dovrà subire più eccessi di quelli che non abbia subìti fino ad ora, dovrà soffrire di più, e in più diverse guise che mai, per opera di colui che gli succederà” (Atto IV, scena III). Minaccia di essere il massimo della depravazione “… Ma nella mia lascivia non c'è fondo, nessuno: le vostre mogli, le vostre figlie, le vostre matrone e le vostre serve, non potrebbero riempire il pozzo della mia lussuria: ed i miei appetiti sopraffarebbero ogni impedimento restrittivo, che si opponesse alle mie voglie. Meglio un Macbeth che un tale uomo a regnare (ibidem). Macduff ha una reazione debole e sembra non essere convinto infatti risponde: “Non manchiamo di dame compiacenti, né vi può essere in voi un tale avvoltoio di lussuria”. Allora Malcolm attacca su un altro fronte: “Se fossi re, mi sbarazzerei dei nobili per impadronirmi delle loro terre; agognerei i gioielli di questo, e la casa di quello”. Macduff replica che questi vizi sono sì deprecabili ma “sopportabili, bilanciati con altre virtù” (Atto IV, scena III). Malcolm dichiara di non avere virtù, anzi confessa di sentirsi un demonio: “Se ne avessi il potere, io verserei il dolce latte della concordia nell'inferno, metterei a soqquadro la pace dell'universo distruggerei ogni armonia sulla terra”. A questo punto Malcolm domanda a Macduff se un uomo del genere sarebbe idoneo a fare il re. L’altro risponde: “Fatto per governare? No! Neppure per vivere!”, aggiungendo una forte carica di disperazione perchè la Scozia sarebbe perduta. La prova finisce qui: “Macduff, questo tuo nobile grido di dolore, figlio della tua integrità, ha cacciato dall'anima mia ogni nero scrupolo, ed ha riconciliati i miei pensieri colla tua nobile lealtà e col tuo onore” (Atto IV, scena III). Malcolm ritira tutto quello che ha detto e svela la sua vera natura e le sue reali intenzioni: “Ora io mi metto sotto la tua guida, disdico la mia propria denigrazione, e qui stesso rinnego le calunnie e le macchie che ho gittate sopra di me, come estranee alla mia natura. Io sono ancora sconosciuto alla donna; non fui mai spergiuro; ho appena desiderato ciò che era mio; in nessuna occasione ruppi mai la mia fede, non tradirei il diavolo ad un suo compagno; ed amo la verità non meno della vita”.

Dopo questa scena in cui la malvagità di Macbeth è stata bilanciata dalla magnanimità di Macduff e Malcolm, al pubblico vengono ricordate le qualità che un buon sovrano dovrebbe possedere. Entra in scena un medico annunciando che una folla di malati attende la guarigione da parte del re. È una malattia che può essere curata solo dal re: “La loro malattia è ribelle ai più grandi tentativi della scienza, ma il cielo concesse una tale santità alla sua mano, che ad un solo tocco di lui, essi guariscono immediatamente”. Uscito il medico, Malcolm racconta che: “Oltre a questo singolare potere, egli possiede il dono celeste della profezia, e pendono intorno al suo trono una quantità di benedizioni che dicono lui pieno di grazia”. Malcolm non fa menzione di Macbeth ma l’unica spiegazione plausibile di questo ritratto è che si voglia marcare il contrasto tra un re che salva il popolo (persino con la taumaturgia) e un tiranno che lo condanna a morte. Infatti ecco che arriva la notizia dell’ultima nefandezza perpetrata da Macbeth: lo sterminio della famiglia di Macduff (Atto IV, scena III).

Durante il sonnambulismo Lady Macbeth rivive i momenti successivi all’omicidio di re Duncan quando il marito non riusciva a fare altro che fissare le macchie di sangue su quelle mani che racchiudevano i pugnali insanguinati. Nel sonno gli parla: “Che ragione abbiamo di temere che qualcuno lo sappia, quando nessuno può chiamare la nostra potenza a renderne conto?” (Atto V, scena I). Il concetto è: una volta diventati i nuovi sovrani di Scozia, cosa importa chi ha ucciso Duncan? È convinta che il potere reale possa rivolvere tutti i problemi. In realtà, non risolve lo stato di follia che la pervade sempre di più.


Quando le giunge voce che l’esercito inglese sta marciando verso il castello, Macbeth sa bene che potrebbe uscirne sconfitto e prova a farsene una ragione. In un monologo celebre, dice che la sua vita non ha più senso: “Io ho vissuto abbastanza, il cammino della mia vita è giunto alla stagione, in cui la foglia si fa secca e gialla, e tutto ciò che dovrebbe accompagnare la vecchiaia come onore, affetto, obbedienza, schiere di amici, io non debbo cercare di averlo. Per me, in loro vece, ci sono maledizioni proferite a bassa voce, ma profonde, rispetto espresso a fior di labbra, come un soffio che il povero cuore vorrebbe volentieri trattenere, ma non osa” (Atto V, scena III). Finalmente capisce le conseguenze della tirannia. Dettando legge col terrore e la menzogna, tutti i suoi sudditi lo odiano profondamente. [I12]

Giunto a Dunsinane, Siward, il comandante delle truppe inglesi, commenta a Malcolm: “Non sappiamo altro, se non che il tiranno se ne sta ancora, tranquillamente, in Dunsinane, e che attenderà che noi gli piantiamo il campo davanti” (Atto V, scena IV). Secondo lui Macbeth si sente così invincibile che, anziché attaccare, ha scelto di lasciare al nemico la possibilità di assediarlo. Malcolm replica che il tiranno non ha scampo: “Dovunque se ne offra il destro, grandi e piccoli gli si rivoltano contro, e nessuno lo serve più, se non gente costretta, e lo fa anche senza il cuore” (Atto V, scena IV).
Ormai gli unici rimasti fedeli al tiranno sono coloro che gli ruotano fisicamente intorno e che quindi obbediscono solo perché temono la sua spada in caso di tradimento.

   6/15   

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