Le Proteine di Lorenzo Flora (flora.lorenzo@libero.it), Davide Romano (romandave@libero.it), Paola Carbone (tarantapao@virgilio.it), Vittorio Romanelli (vg67-g@libero.it)

Enzimi nel corpo umano

ENZIMI NEL CORPO UMANO

fosfatasi acida (acp)

Le fosfatasi sono enzimi i cui substrati sono costituiti da molecole contenenti un gruppo fosfato: l’enzima catalizza la liberazione del fosfato dal resto della molecola. Le singole specie enzimatiche hanno substrati preferenziali differenti. La fosfatasi acida ha attività enzimatica ottimale a pH 5. Essa è presente in molti tessuti, anche se la prostata rappresenta l’organo in cui questa attività enzimatica raggiunge livelli più alti. Attività minori si trovano in: eritrociti, piastrine, fegato, milza ed anche nel latte umano e a livelli molto elevati nel liquido seminale.

In clinica si determina solo la forma prostatica di ACP, ed è di grande utilità per la diagnosi del carcinoma prostatico. Un altro impiego frequente è nella diagnosi medico-legale di stupro.

Il sangue dovrebbe essere prelevato evitando emolisi ed il siero dovrebbe essere separato rapidamente dal coagulo. La ACP ha un’attività estremamente labile: di conseguenza l’esame dovrebbe essere effettuato entro poche ore o il siero dovrebbe essere congelato. L’acidiificazione del campione con acido citrico stabilizza l’attività di ACP.

fosfatasi alcalina (alp)

Ha attività enzimatica ottimale a pH 9. E’ praticamente ubiquitaria, a dimostrazione dell’importanza essenziale del suo ruolo metabolico. I tessuti o le celule che ne presentano i livelli più elevati sono: ossa, fegato, intestino, rene, leucociti, placenta. Le attività ALP nei diversi tipi cellulari sono il prodotto di diversi geni ed è quindi possibile distinguere isoenzimi ALP organo-specifici. I correnti metodi per separare gli isoenzimi della ALP permettono una risoluzione modesta e sono molto sensibili alle condizioni del campione (in particolrae alla sua freschezza).

Si può avere un aumento del livello sierico di fosfatasi alcalina in varie situazioni (in ordine decrescente): ostruzione delle vie biliari, cirrosi biliare, epatopatie, mononucleosi infettiva, metastasi ossee, osteopatie metaboliche (rachitismo), epatiti virali, cirrosi, malattie infiammatorie dell’intestino, quali la colite ulcerosa, fratture in via di guarigione, gravidanza (l’aumneto è dovuto all’isoenzima di origine placentare, ed è privo di significato patologico), bambini (le cui ossa sono in crescita).

La determinazione dei livelli di ALP dovrebbe essere effettuauta su siero ottenuto da sangue raccolto a digiuno e posto a sierare in provetta. Campioni di siero conservati per periodi compresi da 1 a 4 giorni a temperatura ambiente possono presentare limitati aumenti di ALP, contenuti se il campione è conservato in frigorifero.

transaminasi (aminotransferasi)

Sono gli enzimi che catalizzano il trasferimento reversibile di un gruppo aminico tra un aminoacido ed un α-chetoacido:

Le due transaminasi misurate più frequentemente sono: alanina aminotransferasi (ALT), aspartato aminotransferasi (AST). Entrambe richiedono la presenza di vitamina B6 come coenzima, la quale viene spesso aggiunta alla miscela di reazione per consentire una ottimale determinazione dell’attività enzimatica anche in caso di deficienza di B6.

Tali enzimi sono presenti in molti tessuti dell’organismo; i livelli più alti di attività enzimatica sono presenti nel fegato. Gli epatociti sono le uniche cellule con alti livelli di ALT; reni, cuore e muscoli scheletrici contengono quantità minori dell’enzima, e livelli ancora più bassi sono misurabili in pancreas, milza, polmoni ed eritrociti. Quindi un aumento dei livelli sierici di ALT è indice relativamente specifico di danno epatico. AST è presente in quantità notevoli nel fegato, ma anche nel miocardio e nel muscolo scheletrico. Negli epatociti l’AST ha un’attività circa 3-4 volte più elevata di quella di ALT.

Elevati livelli di AST e ALT sono un indice significativo di danno epatico.

Come altri enzimi di origine muscolare, anche AST può essere rilasciata da tessuto muscolare danneggiato da infezioni, processi infiammatori, convulsioni.

ace (enzima di conversione dell’angiotensina)

Provvede alla conversione del decapeptide angiotensina 1 nell’octapeptide ad azione vasocostrittoria angiotensina 2. Questa conversione avviene principalmente a livello polmonare. E’ prodotta dai macrofagi e dalle cellule epitelioidi.

Il più importante impiego diagnostico rigurada la sarcoidosi in fase attiva, nella quale i livelli di ACE sono elevati. Altre condizioni associate ad alti livelli di ACE sono il morbo di Gaucher e la lebbra. I livelli possono essere elevati in molti soggetti sani di eta inferire ai 20 anni e in circa il 5 % dei soggetti adulti.

colinesterasi: pChE, AChE

L’attività colinesterasica sierica è spesso detta ‘pseudocolinesterasi’ (o pChE), per distinguerla dalla ‘vera’ acetilcolinesterasi (o AChE), presente negli eritrociti e nelle terminazioni nervose. L’acetilcolina è il neurotrasmettitore rilasciato a livello della sinapsi della placca neuromuscolare allorchè l’impulso nervoso raggiunge il muscolo. Essa diffonde nello spazio sinaptico e provoca la depolarizzazione della fibra muscolare e la conseguente contrazione. La trasmissione dello stimolo è interrotta dalla rapida scissione dell’acetilcolina in acetato e colina, catalizzata dalla AChE. L’incapacità di inattivare l’acetilcolina causa paralisi. La pChE presente nel siero origina dagli epatociti. L’AChE e la pChE sono enzimi differenti identificabili in laboratorio grazie alle loro diverse capacità catalitiche.

AchE: alta specificità, quindi pochi substrati sono attaccabili dall’enzima; esplica attività ottimale a basse concentrazioni di acetilcolina (substrato).

PChE: opera su un ampio gruppo di esteri della colina; è attivo sia a basse che ad alte concentrazioni di substrato.

Entrambe sonoinibite dagli enzimi organofosforici.

E’ fondamentale nella valutazione della funzionalità epatica e nella trasmissione nervosa.

γ glutamiltranspeptidasi (γGT)

Catalizza il trasferimento di residui di acido glutamico tra peptidi o singoli aminoacidi; il legame tra i diversi composti e l’acido glutamico avviene tramite il carbossile in posizione γ. E’ possibile che questa funzione enzimatica giochi un certo ruolo nel trasferimneto degli aminoacidi attraverso le membrane cellulari. E’ presente in grandi quantità nell’epitelio tubulare renale e nel fegato, e a livelli meno elevati nel tessuto osseo. Rappresenta un indicatore molto utile in diverse epatopatie. Un danno agli epatociti o agenti chimici epatotossici possono causare rilascio di γGT, così come anche alcol e barbiturici: la fuoriuscita dell’enzima nel siero sembra dipendere da un aumento della sua concentrazione intracellulare. Essendo la γGT molto sensibile all’ingestione di alcol, è di grande utilità per seguire l’andamento ed i risultati di terapie di disintossicazione. Sebbene la γGT di origine renale non sia mai presente nel siero, sue determinazioni nell’urina possono essere impiegate per valutare danni ai tubuli renali dovuti a sostanze nefrotossiche.

LATTICO DEIDROGENASI (LDH)

Catalizza la conversione reversibile del lattato in piruvato ed utilizza il NAD+ come cofattore.

La lattico deidrogenasi è virtualmente ubiquataria. E’ un tetramero che contiene 4 subunità di due possibili tipi molecolari diversi, H ed M. Il risultato è che ci sono cinque possibili isoenzimi di LDH presenti in:

LD1 (H4) e LD2 (H3M): cervello, cuore, eritrociti

LD3 (H2M2): cervello e reni

LD4 (HM3): fegato, muscolo scheletrico, reni

LD5 (M4): fegato, muscolo scheletrico, ileo

Essi hanno origini tissutali diverse, che permettono di individuare per ogni forma un organo d’origine. Si utilizzano varie tecniche per distinguere gli isoenzimi LDH, che sfruttano la loro differente termostabilità o la loro specificità di substrato. Il metodo più impiegato è l’elettroforesi, data la differenza di carica eistente tra le subunità H e M. Nei campioni di siero l’attività LDH rimane stabile per diversi giorni a temperatura ambiente.

L’attività LDH sierica totale è elevata in ogni patologia dove sia presente danno o morte cellulare e il suo dosaggio costituisce un indicatore sensibile della esistenza di un qualche processo patologico, anche se la mancanza di specificità può costituire uno svantaggio per l’identificazione dell’organo interessato.

Si può avere un aumento del livello sierico di lattico deidrogenasi totale in vari casi (in ordine decrescente): anemia megaloblastica, metastasi carcinomatose, shock e condizioni di ipossia, epatiti, infarto renale, miocardico, polmonare, condizioni associate ad emolisi, leucemie, mononucleosi infettiva, distrofia muscolare, epatopatie, ipotiroidismo, sindrome nefrosica, colangite.

I campioni di siero o di altri liquidi organici da usare per determinare l’attività LDH non devono presentare emolisi e devono essere rapidamente separati dai coaguli, perchè le cellule ematiche possono rilasciare LDH. Le attività di tale enzima sono stabili a temperatura ambiente, mentre sono danneggiate dal congelamento dei campioni.

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