La nascita dei fascismi in Italia e Germania di Daniela Raimondo (raimondopatrucco@libero.it), Valter Balzola (), Rossana Denicolai ()

LE ORIGINI: IL BIENNIO ROSSO (e approfondimenti)

L'Italia, come del resto gli altri paesi europei, era uscita dalla Grande Guerra estremamente provata: le perdite umane erano state ingenti, i danni materiali incalcolabili. Il paese si trovava in una situazione di grande incertezza: riconvertire il sistema economico da una produzione di tipo bellico ad una di mercato rappresentava una sfida che il nostro apparato industriale stentava a vincere. La crisi economica non contribuiva certo a rasserenare gli animi; molti reduci che durante la guerra avevano ricevuto incarichi di comando, come ufficiali, e promesse, si trovavano ad essere in condizioni disagiate, spesso disoccupati, e lo scontento montava. I figli delle classi piccolo-borghesi non riuscivano a trovare occupazioni che in qualche modo potessero soddisfare le loro aspettative di ascesa sociale e spesso, animati da sentimenti patriottici, vivevano la frustrazione di non aver partecipato alla "Grande Guerra", a causa della loro giovane età; questo sfociava in un nazionalismo acceso, accresciuto dal mito della "vittoria mutilata": gli accordi di pace, infatti, non avevano dato soddisfazione alle pretese italiane su Fiume, suscitando le proteste di vasti strati della popolazione.

La Grande Guerra, inoltre, era stata la prima esperienza “di massa” del paese: per la prima volta erano stati coinvolti in un’impresa “politica” e “nazionale” soldati, contadini, donne, operai e operaie di tutto il territorio italiano e questo sembrava costituire una sorta di “punto di non ritorno” che vedeva irrompere nella scena politica milioni di persone che ne erano state a lungo escluse e che appoggiavano nuovi partiti.

Con le elezioni del 1919, infatti, apparve chiaro che la situazione politica, rispetto al periodo immediatamente precedente l'intervento, era profondamente mutata: i partiti dell'Italia liberale e la vecchia classe dirigente non erano più rappresentativi della società, avevano perso voti, credibilità e prestigio, trovando difficoltà sempre crescenti nella loro opera di governo. In Italia il principio liberale e quello democratico, entrambi fondamentali per il processo di unità nazionale, erano sempre stati profondamente scissi. L’ unità nazionale era il frutto di due iniziative in conflitto tra loro: l’una era proveniente “dall’alto” (la politica di casa Savoia, le guerre di indipendenza), l’altra “dal basso” (le iniziative “democratiche”, come quella dei mille). Il timore che l’affermazione della democrazia potesse condurre alla rivoluzione era stato presente nella storia dell’Italia liberale e della sua classe dirigente (ancora Einaudi, agli albori della nostra Repubblica, si dimostrò contrario all’ Assemblea Costituente perché riteneva che potessero in tal modo introdursi degli elementi giacobini).

I nuovi partiti, socialista e popolare, erano perciò vissuti dallo stato liberale come “antisistema” e quindi fortemente avversati, ma è innegabile che la vera novità dello scenario post bellico era proprio l'entrata sulla scena di tali partiti "di massa" che, anche grazie all'introduzione del sistema proporzionale a suffragio universale maschile, approvato nel 1913, avevano acquistato rappresentatività e consensi (i gruppi liberal-democratici, che si erano presentati divisi alle elezioni, persero la maggioranza assoluta, passando dagli oltre 300 seggi del 1913 a circa 200, mentre i socialisti si affermarono come primo partito, con 1.800.000 voti, pari al 32%, e 156 seggi, seguiti dai popolari, con 1.160.000 voti e 100 deputati).

La Chiesa, per la prima volta dalla nascita dello Stato unitario, pressata dalla crescita del movimento socialista, aveva mutato il suo atteggiamento totalmente negativo nei confronti dell'impegno politico dei fedeli, consentendo ad un sacerdote, don Sturzo, di fondare il Partito Popolare Italiano, di chiara ispirazione cattolica, anche se non dichiaratamente confessionale, il cui programma sociale, blandamente riformista, si rivolgeva alle masse contadine che facevano riferimento alle leghe bianche e alla piccola borghesia cittadina, non rappresentata dai vecchi partiti liberali, ma spaventata dalla crescita impetuosa dei socialisti.

Il partito socialista, infatti, nell'immediato dopoguerra aveva aumentato vorticosamente il numero degli iscritti: la rivoluzione d'ottobre aveva entusiasmato le masse operaie, creando in tutta Europa aspettative di rivolgimenti sociali. In Italia il partito socialista era diviso in due correnti, riformisti e massimalisti. I primi puntavano ad un miglioramento delle condizioni dei lavoratori attraverso una serie di provvedimenti presi all'interno del sistema esistente; a questa corrente aderiva la maggior parte dei parlamentari e la quasi totalità dei quadri sindacali del partito. I massimalisti, invece, puntavano esplicitamente alla rivoluzione, sul modello di quella sovietica del ’17, senza per altro far nulla di concreto per progettarla o realizzarla. Fu proprio questo atteggiamento, combattivo a parole, ma mai tradotto in atti realmente sovversivi, a costituire una delle maggiori debolezze della Sinistra italiana nel dopoguerra: servì solo a spaventare le classi dirigenti, a creare un clima di scontro ed incertezza che favorì, come vedremo, la crescita del movimento fascista. Le punte avanzate del sistema liberale (Nitti) cercarono di assorbire le spinte provenienti dai partiti e dalle masse popolari; Giovanni Amendola tentò di formare, in alternativa al fascismo, il primo partito “democratico” che non fosse percepito anche come alternativo al sistema liberale, l’Unione Nazionale Democratica, ma si era “fuori tempo massimo” e l’ipotesi alternativa, come si vedrà, era destinata a fallire, lasciando il posto all’affermazione di una dittatura “moderna” in un paese che con la modernità sembra essere in palese conflitto. Nel periodo tra il 1919 ed il 1920, il cosiddetto biennio rosso, ci furono grandi lotte sindacali ed operaie; i lavoratori, in presenza di un'inflazione sempre crescente, rivendicavano un adeguamento dei loro salari al carovita, mentre da parte dei datori di lavoro c'era una ferma opposizione.

Scioperi, serrate padronali ed infine l'occupazione delle fabbriche si susseguirono in una escalation che vide gli operai vincitori, dal punto di vista sindacale (le richieste economiche della Fiom vennero in buona sostanza accettate), ma perdenti da quello politico: infatti, durante le giornate "gloriose" dell'occupazione, la classe operaia, galvanizzata dall'esempio russo, aveva auspicato, atteso, invocato la rivoluzione che, sul modello di quella bolscevica avrebbe dovuto travolgere lo stato esistente per aprire nuove prospettive di giustizia sociale; nulla però era stato fatto per far uscire la lotta dalle fabbriche, per comunicare le nuove idee, per estendere la lotta all'intero tessuto sociale, ai contadini in particolare, che, numericamente, rappresentavano una forza cospicua.

D’altra parte gli industriali non nascondevano la loro irritazione, anche per aver subito le pressioni del governo che, con Giolitti, era intervenuto in un’azione di mediazione. E la borghesia nel suo complesso, passata la “grande paura” della rivoluzione, cominciava a serrare i ranghi, cercando di sfruttare ogni occasione per cogliere la rivincita.

Anche i contadini, per altro, avevano formato le loro associazioni, dando vita a lotte sindacali nei confronti dei possidenti terrieri: in particolare i salariati erano organizzati in efficienti leghe rosse, d'ispirazione socialista, che in alcune zone, come la bassa pianura padana, avevano conseguito miglioramenti significativi, sia per quel che riguarda i compensi spettanti, sia per il sistema di reclutamento della manodopera, che veniva gestito dalle leghe stesse, che potevano, in tal modo trattare da posizioni di forza con gli agrari. Meno numerose e peggio organizzate, le cooperative bianche erano il punto di riferimento dei mezzadri, che ritenevano di essere collocati su un livello più elevato della scala sociale, e che avevano l'ambizione di divenire piccoli proprietari.

Fu proprio dalla reazione degli agrari della pianura padana contro le rivendicazioni dei salariati organizzati in cooperativa che iniziò l'ascesa del fascismo, un lungo cammino che portò l'Italia da una guerra all'altra. Il fascismo ebbe successo come elemento di risposta politico-militare dei grandi agrari alla sinistra: i proprietari terrieri, infatti, costretti a trattare con le leghe rosse il salario ed il reclutamento dei loro braccianti, videro nei Fasci di combattimento, fondati da Mussolini il 23 marzo 1919, lo strumento migliore per abbatterne il potere e cominciarono a finanziare il movimento ed il suo capo; ma non si trattò solo di una risposta reazionaria volta a conservare i privilegi di pochi: non a caso il fascismo si affermò nelle zone più avanzate d’Italia, guidato dall’esperienza di ex socialista di Mussolini, giornalista e grande comunicatore che, come vedremo, mutuò dai suoi compagni di un tempo la simbologia utilizzata nelle cerimonie di massa, dando luogo ad un movimento che, pur richiamandosi a valori conservatori, aveva adottato il linguaggio della “modernità” e si dimostrava decisamente “moderno”, realizzando l’integrazione delle masse nello stato; si trattò di un coinvolgimento passivo, privo di diritti e reale partecipazione, ma pur sempre – e per la prima volta – di un coinvolgimento di tipo politico.

Tensioni politico-sociali: approfondimenti [I1] [F1] [F2] [S1]

E PER CHI VUOLE APPROFONDIRE...

Nascita del fascismo:presentazione e documentazione originale:

Il manifesto dei fasci di combattimento (1919) - Programma di San Sepolcro

Italiani! Ecco il programma di un movimento genuinamente italiano. Rivoluzionario perché antidogmatico; fortemente innovatore antipregiudiziaiolo.

Per il problema politico:

Noi vogliamo:

a) Suffragio universale a scrutinio di lista regionale, con rappresentanza proporzionale, voto ed eleggibilità per le donne.

b) II minimo di età per gli elettori abbassato ai I 8 anni; quello per i deputati abbassato ai 25 anni.

c) L'abolizione del Senato.

d) La convocazione di una Assemblea Nazionale per la durata di tre anni, il cui primo compito sia quello di stabilire la forma di costituzione dello Stato.

e) La formazione di Consigli Nazionali tecnici del lavoro, dell'industria, dei trasporti, dell'igiene sociale, delle comunicazioni, ecc. eletti dalle collettività professionali o di mestiere, con poteri legislativi, e diritto di eleggere un Commissario Generale con poteri di Ministro.

Per il problema sociale:

Noi vogliamo:

a) La sollecita promulgazione di una legge dello Stato che sancisca per tutti i lavori la giornata legale di otto ore di lavoro.

b) I minimi di paga.

c) La partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori al funzionamento tecnico dell'industria.

d) L'affidamento alle stesse organizzazioni proletarie (che ne siano degne moralmente e tecnicamente) della gestione di industrie o servizi pubblici.

e) La rapida e completa sistemazione dei ferrovieri e di tutte le industrie dei trasporti.

f) Una necessaria modificazione del progetto di legge di assicurazione sulla invalidità e sulla vecchiaia abbassando il limite di età, proposto attualmente a 65 anni, a 55 anni.

Per il problema militare:

Noi vogliamo:

a) L'istituzione di una milizia nazionale con brevi servizi di istruzione e compito esclusivamente difensivo.

b) La nazionalizzazione di tutte le fabbriche di armi e di esplosivi.

c) Una politica estera nazionale intesa a valorizzare, nelle competizioni pacifiche della civiltà, la Nazione italiana nel mondo.

Per il problema finanziario:

Noi vogliamo:

a) Una forte imposta straordinaria sul capitale a carattere progressivo, che abbia la forma di vera espropriazione parziale di tutte le ricchezze

b) II sequestro di tutti i beni delle congregazioni religiose e l'abolizione di tutte le mense Vescovili che costituiscono una enorme passività per la Nazione e un privilegio di pochi.

c) La revisione di tutti i contratti di forniture di guerra ed il sequestro dell' 85% dei profitti di guerra.

(«II popolo d'Italia», 6 giugno 1919)

Commento - Nell' immediato primo dopoguerra, la situazione italiana era molto difficile, infatti nonostante la vittoria le condizioni sociali e politiche del nostro Paese erano tutt'altro che rosee.

Vi era per prima cosa la difficile situazione dei reduci della Grande Guerra che dovevano fare i conti oltre che con le ferite fisiche, le mutilazioni anche con un difficile reinserimento post-bellico nella vita quotidiana, un reinserimento tutt'altro che agevole vista anche la grave crisi economica in cui versava l'Italia a causa dei debiti contratti con le spese belliche.

In primis vi era la situazione dei contadini, i quali erano l'ossatura del nostro esercito e ai quali il Generale Diaz aveva promesso come incentivo, a guerra finita la terra, o meglio una equa distribuzione delle terre che avesse "accontentato" tutti; ma ciò si scontrava con l'opposizione dei grandi proprietari terrieri, gli agrari i quali sostenevano che le terre vanno date ai contadini quando si perde una guerra e non quando la si vince. Tutto ciò finì col fare da catalizzatore ad una situazione già tesa, tanto che gli ex combattenti senza terra in molte regioni invasero i latifondi incolti, insieme con i contadini più poveri.

Se quindi nelle campagne la situazione era al limite, meglio certamente non andava nelle città. Infatti il costo della vita aumentava a dismisura anche a fronte di provviste scarse, i salari allo stesso tempo rimanevano fissi e addirittura in qualche caso diminuivano; tutto ciò portò anche al saccheggio di molti negozi da parte di persone allo stremo, ridotte alla fame.

Gli operai abbinavano alle loro rivendicazioni economiche ideologie politiche sull'esempio della rivoluzione russa, tutto ciò avrebbe portato al "biennio rosso"(1919-1920) caratterizzato dall'occupazione delle fabbriche da parte degli operai che in alcuni casi cercarono di ispirarsi al motto diffusosi in quegli anni in tutta Europa, "fare come in Russia".

Paradossalmente chi risentì maggiormente della difficile situazione economica, furono i cosiddetti"ceti medi", tra i quali figuravano molti complementari dell'esercito e anche generali, senza dimenticare il malcontento degli "arditi di guerra" un gruppo di assalto costituito negli ultimi anni di guerra, che ora si trovava a disagio nel nuovo clima di democrazia e di pace.

E' in questo scenario che si inserisce la figura di Benito Mussolini, che fino allo scoppio della prima guerra mondiale era dirigente socialista e, dal 1912, addirittura direttore de l'Avanti!. Dopo un'iniziale adesione alla linea di neutralismo del partito, Mussolini divenne interventista e allora il 20 ottobre del 1914 si dimise dalla direzione del giornale. In novembre realizzò un suo quotidiano, "Il popolo d'Italia", ultranazionalista, radicalmente schierato su posizioni interventiste a fianco dell'Intesa. Espulso immediatamente dal Psi, qualche anno dopo, nel '18, ruppe anche gli ultimi legami ideologici con l'originaria matrice socialista, in nome di un superamento dei tradizionali antagonismi di classe.

Finita la guerra, nel 1919 fondò i fasci di combattimento. Il nuovo movimento era inizialmente noto come "sansepolcristi" (da P.zza San Sepolcro a Milano,dove il 23 Marzo 1919 furono fondati i "fasci italiani di combattimento"e fu emanato il "programma di San Sepolcro") e fece leva sul disagio diffuso soprattutto tra i ceti medi, i militari e gli ex combattenti,per ottenere un consenso sempre maggiore, rivendicando inoltre la cosiddetta "vittoria mutilata" in cui l'Italia non aveva ottenuto il giusto riconoscimento ai suoi sacrifici, bellici e umani,che aveva sostenuto.

Analizzando il "Programma di San Sepolcro" possiamo notare tra gli altri punti trattati da Mussolini e i "sansepolcristi", una serie di provvedimenti volti a cercare di risolvere la difficile situazione sociale instauratasi nel Paese all'indomani della fine della guerra: tra le altre cose si chiede una legge che sancisca la giornata legale di otto ore di lavoro,una modifica alla legge sull'assicurazione e sulla vecchiaia (la pensione potremmo dire) con abbassamento del limite di età da 65 a 55 anni.

Nell’escalation che li avrebbe condotti al potere i fascisti che fecero largo uso della violenza squadrista, prima con il "fascismo agrario" e squadre fasciste pagate dai proprietari terrieri che cercavano di tenere saldamente nelle loro mani il potere nei latifondi, insidiato dalle cosiddette "leghe rosse". Tra gli squadristi più rappresentativi del fascismo agrario va senza dubbio ricordato Roberto Farinacci "ras" di Cremona.

La situazione si profilava sempre più favorevole ai fascisti che tra l'altro già nel 1919 avevano assaltato la sede del giornale socialista "Avanti" e che giunsero anche all'occupazione militare di ampie zone del nord Italia nel corso del 1921 grazie alla connivenza allo stesso tempo delle forze dell'ordine, come è dimostrato da molti documenti.

Divenuto deputato al Parlamento con le elezioni del 1921, Mussolini si avvicinò maggiormente alla monarchia (mentre il suo programma originario era di fedeltà agli ideali repubblicani) con il discorso di Udine (20 settembre 1922). In quel 1921 un'accelerata agli eventi, fu molto probabilmente svolta dalla conclusione dell'occupazione di Fiume, città a maggioranza abitata da italiani, che era stata data con un accordo siglato dal governo Giolitti alla Jugoslavia, da parte delle truppe o meglio dei volontari guidati dal poeta Gabriele D'Annunzio (Gabriele Rapagnetta) che già durante il conflitto mondiale aveva dimostrato tutto il suo coraggio con diverse azioni tra le quali il famoso volo su Vienna; molto probabilmente il grande consenso acquisito dai "fiumani" di D'Annunzio, portò Benito Mussolini a voler prendere l'iniziativa, anche perchè il futuro Duce non nascondeva il timore per il consenso sempre maggiore ottenuto da D'Annunzio che si proponeva come,possiamo dire,"capo naturale". del fascismo.

Il 24 ottobre del 1922 a Perugia fu formato un quadriumvirato composto da Italo Balbo,Cesare Maria De Vecchi,Mario Rossi tra gli altri,che aveva il compito di coordinare la "marcia su Roma" , il 28 ottobre 1922 bande non molto organizzate di fascisti cominciarono a confluire su Roma e qui, il Re preso atto della situazione, invece di allertare l'esercito per disperdere i fascisti, non firmò lo stato d'assedio, ma anzi il giorno seguente affidò a Mussolini, che nel frattempo era giunto a Roma comodamente in treno,il compito di formare il nuovo governo, così senza colpo ferire ma in maniera del tutto democratica il Duce cominciava quel cammino che avrebbe condotto l'Italia ad una dittatura ventennale e ad una guerra disastrosa.

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