Natura, Scienza e Religio nel De Rerum Natura di Lucrezio di Irene Anna Rubino (braciu@yahoo.it), Francesca Gnan (fran.gnan@tiscali.it), Maria Sciancalepore (mariamiriam@katamail.com), Monica Sotira (monica.soti@yahoo.it)

LA NATURA COME FORZA CREATRICE - Inno a Venere

De rerum natura, I, 1-43

                                                                                                                                  

Il passo seguente può essere diviso in due sequenze:

·        vv. 1-20: luminosa descrizione dell’arrivo della primavera, rappresentato come epifania divina;

·        vv. 21-43: richiesta a Venere [Ita1] [Sp1], da parte del poeta, della pace per i Romani, pace essenziale per il poeta e per Memmio, che non può seguire l’insegnamento del poeta, perché impegnato a dare il suo contributo per la salvezza della patria.

Lo stile è quello del linguaggio della preghiera e della forma poetica dell’inno, con cui si spiega il frequente ricorso ad aggettivi possessivi e pronomi personali di seconda persona singolare. Nella seconda parte l’inno diventa una preghiera vera e propria e lo stile si innalza fino alla sublimità.

Per quanto riguarda il discorso sulle caratteristiche generali del proemio, si fa riferimento a quanto si è già osservato, in classe, relativamente ad autori precedenti, italiani e latini.

Bisogna innanzitutto chiarire quella che appare, da subito, come una contraddizione: l’invocazione alla divinità da parte di un seguace dell’epicureismo, che, in quanto tale, crede che le divinità vivano confinate negli intermundia e non si curino minimamente delle vicende umane. La spiegazione è semplice: il poeta avrà modo di esprimere la sua opinione in merito alla religio successivamente; qui, perfettamente in linea con la tradizione epica, invoca la divinità affinché gli dia  l’ispirazione e lo assista nella stesura dell’opera. Ma il proemio lucreziano è molto di più di un semplice omaggio alla tradizione: innanzitutto bisogna notare che, in luogo delle Muse o di Apollo [Sp2] [En1], loro padre, l’autore sceglie di invocare Venere (il cui nome è fortemente posto in rilievo sia per un sapiente uso della punteggiatura, sia perché collocato in fine di verso ), per tre diversi motivi:

  • In quanto Aeneadum genetrix, invocare Venere significa omaggiare, in senso lato, i Romani, i discendenti di Enea, figlio di Venere;
  • Il dedicatario dell’opera, Gaio Memmio, recava un’effigie di Venere nel suo stemma gentilizio;
  • Oltre al motivo encomiastico, Venere è rappresentata come potenza generatrice (particolarmente evidente nell’attributo alma (v. 2) - da alo = nutrire - che si potrebbe rendere con “nutrice”), come forza della natura, identificabile con la natura stessa, oggetto su cui si focalizza il poema.

Il proemio è, quindi, un misto di tradizione ed originalità, evidente anche nelle scelte lessicali e stilistiche, in cui arcaismi ed epiteti propri dell’epica, oltre al tradizionale uso dell’esametro, si coniugano con riferimenti e termini desunti dalla dottrina epicurea.

 

Aeneadum genetrix, hominum divomque voluptas,
alma Venus, caeli subter labentia signa
quae mare navigerum, quae terras frugiferentis
concelebras, per te quoniam genus omne animantum
concipitur visitque exortum lumina solis.
                                                   5
Te, dea, te fugiunt venti, te nubila caeli
adventumque tuum, tibi suavis daedala tellus
summittit flores, tibi rident aequora ponti
placatumque nitet diffuso lumine caelum.

Nam simul ac species patefactast verna diei                                              10
et reserata viget genitabilis aura favoni,
aeriae primum volucris te, diva, tuumque
significant initum perculsae corda tua vi.

Inde ferae pecudes persultant pabula laeta                                               
et rapidos tranant amnis: ita capta lepore                                                15
te sequitur cupide quo quamque inducere pergis.                                   
Denique per maria ac montis fluviosque rapacis
frondiferasque domos avium camposque virentis
omnibus incutiens blandum per pectora amorem
efficis ut cupide generatim saecla propagent.                                           20

Progenitrice degli Eneadi, piacere degli uomini e degli dei,

alma Venere, che sotto gli erranti astri del cielo vivifichi

il mare solcato da navi e la terra portatrice di messi,

poiché per opera tua ogni specie di esseri viventi

è concepita e, appena nata, vede la luce del sole.                                                         5

Te, o dea, te fuggono i venti, te le nubi del cielo

al tuo sopraggiungere, per te la terra ingegnosa

fa nascere fiori soavi, per te ride la superficie del mare

e, tornato sereno, il cielo brilla di un chiarore diffuso.

Infatti non appena si schiude l’aspetto primaverile del giorno                                    10

e, liberatosi, prende vigore il soffio fecondatore del favonio,

per primi gli uccelli dell’aria annunciano te ed il tuo arrivo,

o dea, percossi nel cuore dalla tua potenza.  

Poi le fiere e gli armenti saltellano qua e là per i pascoli rigogliosi

ed attraversano i fiumi vorticosi: così ogni animale,                                                   15

preso dal tuo fascino, ti segue avidamente dove tu voglia condurlo.

Infine per mari e monti e per fiumi che travolgono

e per le frondose dimore degli uccelli e i campi verdeggianti,

incutendo a tutti nel petto un dolce desiderio d’amare,

fai in modo che essi, bramosamente, propaghino specie per specie le generazioni.   20

 

 Hominum…voluptas: Parola-chiave è, indubbiamente, il sostantivo voluptas (in greco hedonè), fulcro della filosofia epicurea, che indica appunto nel piacere il sommo bene; non si tratta, però, come vollero intendere alcuni celebri avversari di tale filosofia, tra cui Cicerone, di godimento edonistico fine a se stesso, bensì di una scelta di vita contrassegnata dal disimpegno politico (la politica, come l’amore, rappresenta una possibile fonte di turbamento, inconciliabile con l’atarassìa propria del saggio), motivo per cui questa dottrina era invisa alla maggioranza di quei tradizionalisti, secondo cui il buon civis doveva essere, innanzitutto, un uomo impegnato in politica. L’importanza del termine, che, dal punto di vista logico, è apposizione di Venus,  è sottolineata dalla posizione di rilievo, a fine verso. Divom è un arcaismo, usato in luogo di divum, forma di gen.plur. alternativa a divorum

Caeli...quae: l’anastrofe serve a sottolineare il parallelismo tra le due relative, introdotte dall’anafora di quae, il cui verbo è l’intensivo concelebras; più forte del semplice celebro, il suo significato si connette con celeber = popoloso, affollato. Sia questo verbo, sia il successivo concipitur sono posti in rilievo dall’enjambement, che contribuisce a conferire solennità a questa prima parte del proemio.

Navigerum / frugiferentis: si tratta di due aggettivi composti (navis + gero e fruges + fero), coniati sul modello dell’epica greca

Per te quoniam: anastrofe; l’anticipazione del complemento di mezzo rispetto alla congiunzione, che introduce una causale, serve a mettere in rilievo la figura della dea, senza la quale nulla potrebbe nascere.

Genus…concipitur: insieme ai successivi visit ed exortum, questo verbo scandisce i tre momenti essenziali della vita universale ( genus omne animantum, forma del genitivo plur. del participio pers. senza la “i”, per ragioni metriche): il concepimento, la nascita e la percezione visiva della luce, in una sorta di climax, anche se exortum, participio perfetto con valore temporale, riferito a genus (da notare l’iperbato), è in rapporto di anteriorità rispetto agli altri due verbi.

Te: il passo è impostato sull’anafora in poliptoto del pronome personale di II persona singolare (te...te...te...tibi...tibi), rafforzata dall’accostamento allitterante fra il possessivo tuum e tibi (v. 7), che vuole dare rilievo all’immagine di Venere apportatrice di primavera ed all’effetto del suo arrivo sugli elementi della natura, che appaiono qui personificati, grazie ad un efficace accostamento con i rispettivi verbi ed attributi. Doppia possibilità di interpretazione per quanto riguarda i due tibi (presenti, rispettivamente, al v. 7 ed al v. 8): nella traduzione è stato attribuito loro il valore di dativi di vantaggio, ma è anche possibile interpretarli come dativi di termine, dipendenti da summittit, intendendo, così, “la terra ingegnosa fa nascere ai tuoi piedi...”;

Fugiunt venti: si parla, naturalmente, dei venti invernali, personificati, che “fuggono”, cedendo il posto al dolce Zefiro primaverile (menzionato successivamente, al v. 11)

Suavis daedala tellus summittit flores: la terra viene qui definita “ingegnosa”, attraverso l’uso di un epiteto derivante dal verbo greco daìdàllein = “lavorare artisticamente, variare” (da cui deriva l’aggettivo italiano “dedaleo”, che prende spunto dalla figura del mitico ideatore del labirinto di Cnosso [Ita2] [De1], Dedalo); unitamente al verbo summitto, che rende bene l’idea di una terra che offre un umile dono alla dea, l’attributo di tellus riesce a trasmettere efficacemente l’immagine della terra come “artista”, artefice instancabile di forme sempre nuove; in questo caso, fiori soavi ( si notino l’iperbato e la desinenza dell’accusativo plurale in –is, per cui suavis e flores concordano).

Rident aequora ponti: prosopopea del mare (indicato con il termine aequus, che indica propriamente la superficie calma e piatta del mare), che, grazie all’umanizzazione resa per mezzo del verbo rideo,  sembra “ridere”, secondo un’espressione cara ad Omero; un’altra immagine tipicamente omerica è quella del placatum caelum (si noti, ancora una volta, il forte iperbato tra i due termini, che dilata ancora di più la visione di questo cielo sereno e rende possibile l’allitterazione ponti placatumque, oltre al rapporto di anteriorità rispetto al verbo della principale nitet, espresso dal participio perfetto placatum), che sembra quasi specchiarsi nell’ampia superficie marina.

Diffuso lumine: possibile una duplice interpretazione di questo ablativo, il cui valore oscilla tra il complemento di causa ed il complemento di mezzo; ad ogni modo, la traduzione non subisce sostanziali modifiche.

Adventum tuum: l’espressione è stata tradotta liberamente, in quanto letteralmente rappresenterebbe, insieme ai tre te, ripetuti anaforicamente al v. 6, il complemento oggetto di fugiunt, i cui soggetti sono sia venti, sia nubila caeli.

Simul ac: introduce una subordinata temporale, sottolineando l’immediatezza degli effetti dell’arrivo di Venere nella natura. Dopo aver descritto le conseguenze dell’arrivo di Venere sugli esseri “inanimati” (cielo, mare, terra, etc), anche se personificati da un sapiente uso di aggettivi e verbi, Lucrezio analizza, nei vv. 10-20,  gli effetti del sopraggiungere della dea sugli esseri animati, dividendoli in tre momenti, scanditi da nessi tipicamente prosaici (primum…inde…denique), propri dello stile lucreziano, in cui la poesia non è mai disgiunta dall’esigenza di chiarezza e da una scansione rigidamente logica del ragionamento.

Patefactast ( patefacta est): aferesi. Ha valore mediale; il perfetto indica il ripetersi costante dell’azione, sottolineando il ritorno ciclico della primavera, il cui arrivo è segnalato dal mite favonio, o zefiro, vento che favorisce (favet) la procreazione, tanto che il suo soffio (aura) viene definito genitabilis (aggettivo da intendere in senso attivo, ovvero “che genera”). Il verbo si trova in rapporto di anteriorità rispetto al verbo della principale (significant).

Reserata: il significato del participio perfetto, riferito ad aura, contiene un’allusione ad Eolo, che teneva chiusi i venti dentro una caverna e permetteva che ne uscissero secondo la sua volontà.

 

Aeriae primum: aeriae è riferito a volucris, che è di genere femminile; l’anastrofe mette in evidenza il ruolo degli uccelli come messaggeri della primavera.

Tuum…initum: rappresenta una sorta di variatio rispetto ad adventum tuum (v. 7), con il quale forma un chiasmo; l’iperbato evidenzia, ancora una volta, la diffusione inarrestabile della potenza d’amore.

Perculsae corda tua vi: il participio indica la forza con cui gli uccelli sono colpiti dalla forza della dea (tua vi; si noti il poliptoto, sottolineato dalla medesima posizione all’interno del verso, tuum / tua). Corda è accusativo di relazione.

Ferae pecudes: l’accostamento tra belve feroci e bestiame “domestico”, sottolineato dell’asindeto,  da un lato evidenzia come specie di animali così diverse tra loro siano ugualmente soggette alla potenza dell’amore, mentre, dall’altro, introduce un elemento che verrà successivamente ripreso ed ampliato da Virgilio nella IV ecloga: l’arrivo di Venere presenta, infatti, effetti molto simili a quelli del ritorno dell’età dell’oro sulla terra, in cui gli animali domestici non dovranno più temere le belve feroci.

Lepore: parola-chiave, messa in evidenza dalla collocazione a fine verso; il lepos è la grazia, il fascino che, dal punto di vista letterario, indica le caratteristiche proprie della poesia neoterica (erede della poesia ellenistica), caratterizzata da estrema raffinatezza, grazie ad un attento labor limae e all’inserzione di riferimenti dotti (da cui l’appellativo docti, attribuito agli esponenti di questo nuovo gusto poetico). In questo senso il riferimento è ambiguo: da una parte, la grazia, intesa come fascino, è attribuita a Venere; dall’altra, vi è un richiamo esplicito al giudizio che Lucrezio conferisce alla propria poesia, sottolineato dalla ripresa del termine al v. 28, dove Lucrezio invoca la dea in veste di Musa ispiratrice, chiedendole di donare grazia ai suoi versi.

Pecudes persultant pabula: allitterazione che enfatizza il momento di estrema gioia collegato alla presenza di Venere. Persultant è frequentativo (da per-salire), mentre l’aggettivo laeta ha la stessa radice di laetamen, che indica il rigoglio dei pascoli e, contemporaneamente, li personifica, trasmettendo un’idea di felicità (laetus, laetitia).

Rapidos: riferito ad amnis (=amnes), deriva dal verbo rapere = portare via con forza, travolgere.  

Ita capta…pergis: capta (anteriorità rispetto a sequitur) concorda con quaeque non espresso, ma che si ricava dal quamque del verso seguente. L’avverbio cupide e l’allitterazione quo quamque evidenziano il totale rapimento degli esseri colpiti dalla potenza dell’amore.

Fluviosque rapacis (= rapaces): l’espressione è una variatio del precedente rapidos amnis, rispetto al quale dà origine ad un chiasmo.

Frondiferas /virentis (=virentes): i due aggettivi, il primo dei quali composto, (sulla falsariga di quelli analizzati al v. 3) aprono e chiudono il v. 18, trasmettendo un’idea di serenità legata alla descrizione di una natura lussureggiante. Frondiferas domos avium, che forma un chiasmo con il precedente fluvios rapacis, è una perifrasi (che Virgilio riprenderà in Georg., II, 29) per indicare gli alberi dei boschi, mentre virentis è, propriamente, il participio presente di virere.

Amorem…propagent: amor, altra parola-chiave, è fortemente in rilievo, grazie alla dislocazione alla fine del v. 19; presenta come attributo  l’aggettivo blandum, che sottolinea l’accezione positiva che viene attribuita, in questo caso, all’amore, visto come istinto che spinge gli esseri viventi a procreare, permettendo la sopravvivenza delle specie. Molto diversa è la concezione lucreziana, profondamente negativa,  dell’amore (tema affrontato nel libro IV), inteso come furor, contro cui la filosofia epicurea mette in guardia gli uomini. Da notare la ripresa, in ripetizione anaforica, dell’avverbio cupide e la ripresa, mediante variatio, del termine pectora (che, come il precedente corda, deve essere tradotto con il singolare). Le ripetizioni sono un altro tratto caratteristico dello stile lucreziano; lungi dall’essere una prova dell’ incompiutezza dell’opera (come molti critici vollero vedere, in quanto denoterebbe assenza di rielaborazione formale, le ripetizioni rispecchiano un’esigenza di tipo didascalico: trasmettendo contenuti di natura filosofica, e quindi assai complessi (soprattutto per la cultura latina, ancora poco avvezza alla filosofia), era utile che l’autore ribadisse più volte i concetti, assicurandosi che questi fossero perfettamente compresi. Ut…propagent è dichiarativa, dipendente da efficis, il cui soggetto è saecla, forma sincopata di saecula.

 

Nella seconda sequenza Lucrezio dichiara di aver scelto Venere in qualità di Musa ispiratrice, in quanto la dea è vista come forza creatrice della natura, tema dell’opera, il cui titolo, traduzione del capolavoro di Epicuro, Perì physeos, compare al v. 25, riprendendo in poliptoto il rerum naturam del v. 21. La dea della bellezza e dell’amore, inoltre, è l’unica in grado di concedere grazia e perfezione al poema.

Compare anche (v. 26) il nome del dedicatario, Memmio, qui indicato con il patronimico innanzitutto per ragioni metriche, e, in secondo luogo, per conferire maggiore solennità al momento.

Non si sa chi fosse il Memmio , a cui Lucrezio dedica la sua opera, sebbene siano ormai pressoché tutti d’accordo nell’identificarlo con il Gaio Memmio, questore nel 77 e pretore nel 58, il quale, quando era governatore della Bitinia, portò con sé Catullo nella sua provincia (57-56). Se accettiamo questa identificazione, dobbiamo dedurre che il tentativo di fare del suo dedicatario un seguace della filosofia epicurea si rivelò, per Lucrezio, un totale fallimento; abbiamo, infatti, notizia di una lettera scritta da Cicerone (Ad fam., XIII, I), in cui l’oratore prega Memmio, il quale aveva ottenuto il diritto di edificare nell’area in cui si trovavano le rovine della casa di Epicuro, di non profanare quel luogo sacro, mostrando una totale assenza di reverenza del suo destinatario. Ma questa stessa lettera contiene un elemento che non depone certo a favore dell’identificazione del Memmio lucreziano con G. Memmio: per persuadere il suo destinatario, infatti, Cicerone fa appello all’autorità dell’amico epicureo Attico, mentre non fa minimamente cenno a Lucrezio, la cui opera era stata pubblicata non molto tempo prima (l’epistola è del 51).

Di là da ogni dubbio sull’identità di Memmio, e sulla sua possibile “conversione” all’epicureismo, ciò che più conta è che Lucrezio ha dedicato la sua opera soprattutto ai contemporanei ed ai posteri, consegnandola all’immortalità. Troviamo, a questo proposito, la richiesta, topica per molti poeti, di ottenere eterna fama dalla propria opera, come avviene, ad esempio, nell’ode oraziana Exegi monumentum aere perennius, in cui il poeta, consapevole del valore della sua opera, dichiara che l’arte è l’unico modo per sottrarsi alla fugacità del tempo e quindi, in un certo senso, vivere in eterno ( non omnis moriar). Lucrezio è qui animato dalla medesima consapevolezza, evidente dal tono solenne e dall’utilizzo di numerose figure retoriche in questa seconda sequenza.

 

Quae quoniam rerum naturam sola gubernas
nec sine te quicquam dias in luminis oras
exoritur neque fit laetum neque amabile quicquam,
te sociam studeo scribendis versibus esse,
quos ego de rerum natura pangere conor                                               25
Memmiadae nostro, quem tu, dea, tempore in omni
omnibus ornatum voluisti excellere rebus.

Quo magis aeternum da dictis, diva, leporem,
effice ut interea fera moenera militiai
per maria ac terras omnis sopita quiescant;                                         30
nam tu sola potes tranquilla pace iuvare
mortalis, quoniam belli fera moenera Mavors
armipotens regit, in gremium qui saepe tuum se
reiicit aeterno devictus vulnere amoris,
atque ita suspiciens tereti cervice reposta                                             35
pascit amore avidos inhians in te, dea, visus
eque tuo pendet resupini spiritus ore.

Hunc tu, diva, tuo recubantem corpore sancto
circumfusa super, suavis ex ore loquellas
funde petens placidam Romanis, incluta, pacem;                                40
nam neque nos agere hoc patriai tempore iniquo
possumus aequo animo nec Memmi clara propago
talibus in rebus communi desse saluti.

 

E poiché tu da sola regoli la natura

E niente senza di te sorge alle celesti plaghe

della luce, né diviene lieto e degno d’essere amato,

voglio che tu mi sia compagna nello scrivere versi,

che io tento di scrivere intorno alla natura

in onore del nostro Memmio, che tu, o dea, hai voluto                                        25

che eccellesse, adorno di ogni virtù, in ogni circostanza.

E tanto più, o dea, concedi alle mie parole eterna grazia,

fa in modo che, frattanto, per tutti i mari e le terre, placati,

trovino pace i feroci travagli della guerra;                                                            30

infatti tu sola puoi aiutare i mortali con una pace

sicura, poiché Marte, signore delle armi, guida le fiere

opere della guerra, egli che, spesso, si abbandona sul tuo

grembo, vinto dall’ eterna ferita d’amore,

e così guardandoti, reclinato il ben tornito collo,                                                  35

pasce d’amore i suoi avidi sguardi proteso verso di te, dea,

e dalla tua bocca pende il respiro di lui supino.

Tu, o dea, china su di lui, abbracciando costui, adagiato, col tuo

corpo divino, effondi dolci parole dalla tua bocca,

chiedendo, o gloriosa, una tranquilla pace per i Romani.                                      40          

Infatti né noi possiamo poetare con animo sereno in questo momento triste

della patria, né la famosa stirpe di Memmio può sottrarsi

in tali circostanze, alla salvezza comune.

 

Quae…gubernas: il v. 21 si apre con una proposizione causale in anastrofe, il cui verbo (gubernas) è desunto dal linguaggio tecnico della navigazione; tale immagine rende efficacemente l’analogia che si instaura tra il mare e l’immensità della materia che si muove nel cosmo, dietro lo stimolo dell’amore e della potente dea che sola lo governa, senza la quale nulla potrebbe nascere in natura Nec sine te quicquam…exoritur; l’enjambement mette maggiormente in rilievo il concetto espresso nel verso precedente.

Nec…neque…neque: polisindeto in ripetizione anaforica, volta a sottolineare ciò che, senza Venere non potrebbe avvenire.

Luminis oras: Si tratta di una delle tante immagini enniane di cui l’opera è disseminata; in particolare, l’aggettivo dias esprime sia l’idea della luminosità, sia l’idea della divinità.

Studeo: verbo della principale; regge l’infinitiva te sociam esse, da cui dipende, a sua volta scribendis versibus, gerundivo dativo con valore finale. Sociam studeo scribendis allitterano, creando l’idea dell’interdipendenza tra il poeta e la sua sociam.

Quos…conor: Relativa in cui il verbo conor sottolinea la consapevolezza della fatica e delle difficoltà cui il poeta andrà incontro, accingendosi a trattare  una materia così complessa in una lingua sostanzialmente priva di termini adatti ad esprimere determinati concetti filosofici; il tema tornerà più volte nel corso del poema.

Il verbo della relativa regge l’infinito pangere, il cui significato è, propriamente, quello di “configgere”, “affondare”: allude allo scrivere affondando lo stilo nella cera della tavoletta.

Nostro: il posessivo di I pers. plur., riferito a Memmio, allude, da un lato, al legame affettivo che unisce il poeta ed il suo dedicatario e, dall’altro, al fatto che la gens dei Memmi si vantava di essere sotto la protezione di Venere.

Quem tu…rebus: dalla relativa dipende l’infinito excellere, che regge, a sua volta, l’iperbato omnibus… rebus. Omnibus è, inoltre, in poliptoto con il precedente omni. Entrambe le figure, riguardando l’aggettivo omnis, conferiscono importanza a Memmio, il cui nome diverrà immortale grazie all’opera di Lucrezio.

Aeternum…leporem: l’iperbato, insieme all’allitterazione da dictis diva che racchiude al suo interno, sottolinea proprio l’idea dell’eternità della poesia. Perfettamente in linea con l’inserzione di considerazioni di poetica in questo proemio è il termine leporem, con cui si chiude il v. 28., per gli stessi motivi visti in precedenza.

Effice: l’imperativo segna il passaggio, per Lucrezio, dalla riflessione sulla propria opera ad un tema che gli sta particolarmente a cuore, soprattutto nel convulso periodo delle guerre civili in cui il poema è composto (60-55 ca.); Venere è infatti vista come l’unica divinità in grado di  donare ai Romani una tranquilla pax, sia in quanto progenitrice di questo popolo, sia in quanto l’amore è l’unica forza in grado di contrastare la guerra; l’immagine con cui si conclude il passo è, infatti, quella che ha maggiormente suggestionato parte dell’arte e della letteratura successiva, ovvero quella di Marte [En2] [En3], dio della guerra, che, deposte le temibili armi, si abbandona, inerme, nel grembo di Venere, completamente vinto dal fascino della dea e dalla potenza inarrestabile dell’amore, cui nemmeno una divinità può sottrarsi. La richiesta di pace, però, come risulterà evidente dagli ultimi tre versi, non è solo intesa dal punto di vista politico, come assenza di conflitti; il riferimento è ad una pace più profonda, una pace dell’animo, indubbiamente difficile da conseguire in un periodo politicamente critico, ma riguardante in primis la sfera individuale. Ecco perché quello che appare, sulle prime, solo come un legittimo desiderio di pace si traduce, in senso lato, nell’aspirazione alla condizione di atarassìa propria del saggio epicureo, che si traduce, come già detto in precedenza, innanzitutto , nella scelta del disimpegno politico.

Moenera militiai (= munera militiate) / moenera Mavors(=munera Mars) / volnere(=vulnere): arcaismi, molto frequenti in Lucrezio, ma abbondanti soprattutto in questa seconda sequenza. Armipotens: epiteto riferito a Marte, costruito sul modello degli aggettivi composti greci; unitamente al termine poetico mortalis (in cui si nota, tra l’altro, la desinenza dell’accusativo plurale in –is), in luogo del più comune homines, agli arcaismi sopra analizzati ed il significativo utilizzo di alcune figure retoriche (le allitterazioni  moenera militiai, moenera Mavors, amore avidos;  numerosi enjambements, l’anastrofe in gremium qui e gli iperbati gremium tuum, aeterno volnere, avidos visus, tuo ore) conferiscono particolare solennità, propria del genere epico, al passo.

Per maria ac terras omnis: l’espressione sembra riprendere, con una variatio,quella del per maria ac montis del v. 17. Si ribadisce il concetto che come la potenza dell’amore, rappresentato dall’arrivo di Venere, si diffonde in ogni luogo e giunge ad ogni essere, così anche la pace deve diffondersi ovunque. Analogamente, anche il predicativo sola (v. 31) riprende il sola precedente (medesima è la funzione logica).

Sopita: participio perfetto, riferito a moenera, che rappresenta anteriorità rispetto ala principale.

Iuvare: verbo costruito con l’accusativo della persona  cui  si reca giovamento (mortalis, in posizione di rilievo grazie all’enjambement) e l’ablativo strumentale (tranquilla pace).

Aeterno…amoris: Marte, il dio tanto potente, che vince tutti, è, a sua volta, completamente vinto (il prefisso de- in devictus mette in evidenza la sua completa sconfitta) dalla ferita incurabile (aeterno, aggettivo precedentemente riferito solo al lepos che Venere deve concedere alla poesia di Lucrezio) dell’amore.

Suspiciens: participio presente di suspicio, che indica, propriamente, “guardare verso l’alto”, evidenziando la posizione di totale sudditanza di Marte, ribadita dal successivo avverbio super (v. 39), riferito alla posizione di Venere in quello che è stato definito, per l’efficacia della descrizione, un vero e proprio “gruppo statuario”.

Teriti cervice reposta: ablativo assoluto con valore temporale; l’aggettivo teres esprime la forma piena di grazia e delicatezza di un oggetto uscito dal tornio (terere = “levigare”).

Pascit: il verbo, da cui dipende l’ablativo strumentale amore, rende in maniera estremamente efficace l’idea della totale sottomissione di Marte a Venere, da cui sembra trarre vero e proprio nutrimento; un analogo valore attribuibile al participio presente inhians (lett.: “che sta a bocca aperta”), che anticipa l’immagine sensuale della bocca (ore) di Venere, da cui pendet (sott.:eius) resupini spiritus.

Recubantem: participio con valore attributivo, riferito ad hunc (iperbato)

Corpore sancto: ablativo strumentale dipendente da circumfusa, participio perfetto con valore mediale.

Super suavis(=suaves): allitterazione. La consistente presenza di sibilanti conferisce al verso dolcezza e sensualità, legata all’immagine della dea che, china su Marte, lo avvolge con il suo corpo.

Ex ore loquellas funde: l’espressione, dilatata dall’enjambement, sarà ripresa da Virgilio in Eneide, V, 842 (fundere ore loquellas)

Petens placidam...pacem: l’aggettivo, insieme a pacem (a cui è riferito e con cui allittera, dando, inoltre, origine ad iperbato), rappresenta una variatio di tranquilla pace (v.31). Romanis è dativo di vantaggio, mentre incluta (arcaismo per inclita), qui riferito a Venere, è un epiteto che sarà attribuito ad Epicuro (III, 10).

Nam: nesso tipico della prosa, introduce quella che possiamo considerare la conclusione del proemio. Gli ultimi tre versi contrastano, indubbiamente, con la bellezza e la musicalità dei versi precedenti, ma esprimono, comunque, un’esigenza profondamente sentita, rendendo quest’inno di gioia estremamente umano.

Nam neque nos...possumus: prima principale, in cui nam neque nos alitterano, per evidenziare l’impotenza dei Romani di fronte al signore della guerra; agere dipende dall’ausiliare possumus.

Patriai: arcaico per patriae

Tempore iniquo: il riferimento è, come si è detto in precedenza, al sanguinoso periodo della guerra civile tra Mario e Silla; l’aggettivo è in forte antitesi con aequo (si noti anche la figura etimologica), riferito ad animo, con cui allittera, che indica la condizione propria del saggio epicureo.

Hoc: nella traduzione è stato reso come attributo riferito a tempore, piuttosto che considerarlo come un accusativo neutro dipendente da agere, traducendo, quindi, con “trattare questo argomento”.

Neque...nec: polisindeto, in ripetizione anaforica. Il poeta sottolinea, attraverso questa figura, come la guerra sia la nemica principale della tranquillità dell’animo, che rende possibile lo sviluppo e la diffusione del sapere.

Communi desse saluti: il riferimento alla communis salus può apparire, ancora una volta, in contrasto con la dottrina epicurea, che invitava a vivere una vita ritirata, lontano dalla vita politica; c’è però da tener presente che in Lucrezio, come avviene, in generale, nella mentalità romana, l’indagine scientifica non fu mai considerata separata dall’interesse per le sorti dello Stato. 

Questo vale, in particolare, per un politico come Memmio, che non può di certo dedicarsi all’apprendimento della dottrina epicurea, decretando, almeno in teoria, il falimento dell’intento di Lucrezio, in presenza di problemi più urgenti della propria salus spirituale. Desse (=deesse): infinito dipendente da potest (sott.).

   7/12   

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