Natura, Scienza e Religio nel De Rerum Natura di Lucrezio di Irene Anna Rubino (braciu@yahoo.it), Francesca Gnan (fran.gnan@tiscali.it), Maria Sciancalepore (mariamiriam@katamail.com), Monica Sotira (monica.soti@yahoo.it)

LA NATURA COME FORZA DISTRUTTRICE - Peste di Atene

De rerum natura, VI, 1230-1286

 

Partendo dalle considerazioni espresse nei libri IV e V, a proposito dell’imperturbabilità degli dei, e della loro estraneità alle vicende umane, e dell’indifferenza della natura, evidente dal fatto che nel mondo esistano luoghi inospitali ed innumerevoli pericoli, a dimostrazione del fatto che il mondo non è stato creato per noi, Lucrezio parla, nel libro VI, dei fenomeni meteorologici, erroneamente attribuiti agli dei, di cui fornisce una spiegazione fisica. Dai fenomeni atmosferici passa, quindi, alla descrizione delle epidemie, concludendo l’opera con la descrizione della terribile peste di Atene [Ita1] [En1] del 430 a. C. e conferendo una sorta di struttura “ad anello” al libro, che proprio con l’elogio di Epicuro e della sua patria, Atene, appunto, si era aperto.

Il drammatico finale, che contrasta con la fiducia che Lucrezio sembra nutrire nella possibilità di educare, da  e-duco, “trarre fuori”, e quindi liberare gli uomini dalla loro ignoranza, grazie alla filosofia epicurea, è stato interpretato da molti critici come un’ulteriore prova (oltre alle frequenti ripetizioni ed all’abbondanza di nessi tipici della prosa, di cui si è detto in precedenza) dell’incompiutezza dell’opera, o, seguendo la suggestiva ipotesi di Gerolamo, che volle Lucrezio morto suicida dopo essere impazzito a causa di un poculum amatorium, un filtro d’amore,  dell’acuirsi della malattia mentale dell’autore.

In realtà appare del tutto ingiustificata la pretesa di un lieto fine, rispetto all’importanza del messaggio che l’autore vuole trasmettere, per cui il finale tragico potrebbe assumere il significato simbolico della vita non illuminata dalla dottrina di Epicuro, confermando, e non smentendo, quello che Lucrezio ha voluto dimostrare in tutta l’opera: l’uomo, impotente dinnanzi al manifestarsi della forza distruttrice della natura (così come, d’altra parte,  non può che cedere all’impulso amoroso e “creatore” rappresentato da Venere), di cui la peste rappresenta un chiaro esempio, non ha, a sua disposizione, che l’arma della ragione. Con quest’arma non può certo fermare i cataclismi o impedire la diffusione di malattie, ma può conoscere la loro vera natura, liberandosi, proprio attraverso la conoscenza, dell’oscurantismo della superstizione.

L’atteggiamento del poeta di fronte alla peste, tema che, come vedremo, ha ispirato autori di ogni tempo e provenienza, è quello dello scienziato, che, dopo aver descritto minuziosamente le caratteristiche del morbo, si sofferma sulle sue conseguenze sul piano psicologico e sociale: la diffusione del contagio, ed il tetro scenario di morte che trascina con sé, porta gli uomini ad abbandonare ogni residuo di umanità e a compiere le azioni più empie e scellerate.

 

Illud in his rebus miserandum magnopere unum                                          1230
aerumnabile erat, quod ubi se quisque videbat
implicitum morbo, morti damnatus ut esset,
deficiens animo maesto cum corde iacebat,
funera respectans animam amittebat ibidem.

 

In tale situazione questo soprattutto era oltremodo compassionevole          1230

e doloroso, il fatto, cioè, che quando uno si vedeva

colpito dalla malattia, come se fosse condannato a morte,

perdendosi d’animo si accasciava col cuore afflitto,

(e) pensando al suo funerale, moriva in quello stesso luogo.

 

Illud: prolettico rispetto alla dichiarativa introdotta dal quod del verso successivo.

Miserandum magnopere: allitterazione, che sottolinea la drammaticità della situazione che il poeta descrive

Unum: ha valore rafforzativo

Morti…esset: comparativa ipotetica, caratterizzata dall’anastrofe, che rende possibile l’allitterazione morbo morti, figura che sottolinea il nesso inscindibile tra i due elementi, legati da un rapporto di causa-effetto.

Cum corde e animam amittebat: allitterazioni, che sottolineano la tragicità della scena, in cui il dramma del singolo, in mezzo al dolore universale, è colto nel suo insorgere e nella sua rapida, inevitabile conclusione.

Respectans: participio presente di respecto, intensivo rispetto a respicio, scelto, qui, per indicare l’insistenza con cui pensa alla morte chi è colpito dal morbo, al punto di morire nell’animo (maesto cum corde) prima ancora che col corpo (animam amittebat). Lo sconforto, come prima conseguenza della diffusione del morbo, è un elemento individuato anche da Tucidide (Storie, II, 51,4).

 

Quippe etenim nullo cessabant tempore apisci                                            1235
ex aliis alios avidi contagia morbi,
lanigeras tam quam pecudes et bucera saecla,
idque vel in primis cumulabat funere funus.

Infatti in nessun momento il contagio del male insaziabile                          1235

Cessava di colpire gli uni dopo gli altri,

come lanose pecore e mandrie di buoi,

e questo, soprattutto, accumulava morte su morte.

 

Apisci: infinito di apiscor, dipendente da cessabant, il cui soggetto, contagia, si trova di frequente al plurale in poesia (cfr. VIrg, Buc, I, 50)

Nullo…morbi: L’abbondante presenza allitterante di “a” nei vv. 1235-1236 (con allitterazione, in particolare, di apisci aliis alios avidi) sottolinea la voracità del morbo, che si diffonde rapidamente, sterminando gli uomini come se fossero mandrie di buoi o greggi di pecore; il paragone con il mondo animale sottolinea, inoltre, la progressiva perdita di umanità che il dolore porta con sé.

Lanigeras: aggettivo composto, che conferisce un sapore arcaico ed epico alla descrizione.

Bucera: lett.: “con corna di bue”, quindi “bovino”.

Id: è l’avidi contagia morbi.

Funere funus: allitterazione e poliptoto accentuano il pathos espressivo.

 

Ritorna, ancora una volta, un tema caro ad un autore che, benché greco, gli studenti hanno avuto modo di affrontare come fonte nello studio della storia greca: Tucidide, autore de La guerra del Peloponneso, in cui parlò, appunto, della morte in completa solitudine (turpi morte malaque) che colpisce tutti coloro che, per paura del contagio, si erano tenuti alla larga dagli ammalati, venendo meno ai loro sacri doveri di pietà e solidarietà verso gli altri. Ma l’idea di una sorta di punizione divina, che colpisce chi si è macchiato di una tale colpa, viene smentita nella seconda parte del passo, in cui si prospetta un identico destino di morte anche per qui fuerant autem praesto (dove autem assume un forte valore avversativo), definiti, nel v. 1246, optimum quisque.

Anche in questo punto dell’opera, quindi, Lucrezio non perde occasione per dimostrare l’inesistenza di un disegno provvidenziale, per cui morbi o cataclismi colpiscono indifferentemente i pavidi ed i coraggiosi, gli scellerati ed i virtuosi, non trattandosi di punizioni decise dalla divinità, ma di fenomeni naturali.

 

Nam qui cumque suos fugitabant visere ad aegros,
vitai nimium cupidos mortisque timentis                                                         1240
poenibat paulo post turpi morte malaque,
desertos, opis expertis, incuria mactans.
Qui fuerant autem praesto, contagibus ibant
atque labore, pudor quem tum cogebat obire
blandaque lassorum vox mixta voce querellae.
                                                1245

 

Infatti tutti quelli che evitavano di andare a far visita ai loro cari ammalati,

costoro, troppo attaccati alla vita e timorosi della morte,                                  1240

poco dopo li puniva la mancanza di cure colpendoli, con una morte turpe

e malvagia,tutti soli e privi di soccorso.

Coloro che, poi, erano rimasti a dare il loro aiuto, morivano per il contagio

e per la fatica che un sentimento di vergogna e la voce supplichevole

dei sofferenti mista ai lamenti li spingevano ad affrontare.                               1245

 

Quicumque: equivale ad omnes eos, ma conferisce all’espressione una sfumatura eventuale

Fugitabant: frequentativo di fugiebant, accompagnato dall’infinito visere (intensivo di video), qui costruito con ad + accusativo (suos…ad aegros, che forma un ampio iperbato).

Nel v. 1240 vengono accostati l’eccessivo attaccamento  alla vita (qui nella forma arcaica del genitivo singolare in –ai) ed il vano timore della morte, due atteggiamenti collegati tra loro (ed il parallelismo lo sottolinea) e condannabili dal punto di vista dell’autore, non solo perché, in occasione della peste di Atene, spinsero gli individui ad azioni turpi, senza, peraltro, salvarli dalla tragica fine, ma anche perché si tratta di due reazioni antitetiche rispetto all’ideale del saggio epicureo ampiamente esposto nella prima parte dell’opera. Il v. 1241 è, invece, tutto giocato sulla figura dell’allitterazione (poenibat paulo post e morte malaque), che, come nella parte precedente, tende ad accentuare il pathos. Poenibat è arcaico rispetto a puniebat.

Caratterizzato dall’asindeto il v. 1242, che si traduce in un pressante elenco di sciagure che colpiscono coloro di cui la morte sembra vendicarsi con maggiore crudeltà.

Ibant (da unire agli ablativi di causa contagibus e labore): eufemismo per indicare il momento della morte.

Labore, pudor: efficace accostamento tra i due termini che indicano, rispettivamente, la fatica affrontata per prestare aiuto ai bisognosi e l’obbligo morale che spinge al soccorso che caratterizza la categoria di individui che non cerca di sfuggire alla morte; il termine pudor, insieme a blanda vox (iperbato), è soggetto di cogebant, da cui dipende l’infinito obire. Vox…voce: poliptoto, che trasmette la sensazione dei lamenti che riempivano le strade, sempre più vuote, di Atene.

 

Il passo si apre con una sorta di sintesi di quanto esposto nei vv. 1243-1245, a voler ribadire l’assoluta casualità del comportamento del morbo, che colpisce a prescindere dalle virtù degli uomini. Troviamo, anche in questo passo, un efficace uso delle figure retoriche (e, in particolare delle figure di suono), volte ad intensificare la drammaticità del momento.

 

Optimus hoc leti genus ergo quisque subibat.

Inque aliis alium populum sepelire suorum

certantes; lacrimis lassi luctuque redibant;

inde bonam partem in lectum maerore dabantur;

nec poterat quisquam reperirir, quem neque morbus                                         1250

nec mors nec luctus temptaret tempore tali. 

 

Tutti i migliori incorrevano dunque in questo genere di morte,

e facendo a gara per seppellire l’uno sull’altro i loro

familiari; sfiniti da pianti e gemiti se ne ritornavano (a casa);

quindi si gettavano in buona parte sul letto, sopraffatti dall’angoscia;

e non si sarebbe potuto trovare nessuno che in una tale circostanza                  1250

non fosse stato colpito dalle malattie, dalla morte o dal lutto.

 

Aliis alium / sepelire suorum / lacrimis lassi luctuque / temptaret tempore tali: le  allitterazioni

Nec poteras…nec mors, nec luctus : polisindeto con ripetizione anforica

Aliis alium, luctu luctus: poliptoto

Certantes: participio, posto in rilievo dall’enjambement, che indica come anche il gesto, naturale, di seppellire i propri morti diventi tempore tali una vera e propria lotta contro i propri simili, mentre il ritmo rende l’idea dell’estenuazione, del troppo dolore che porta a non avere più lacrime, a stancarsi persino di piangere, fino a perdere anche l’ultimo residuo di umanità, ormai resi insensibili dalla morte onnipresente. Tutti gli espedienti stilistici menzionati contribuiscono all’intensificazione del pathos, sottolineando gli aspetti più macabri dello spettacolo che si presenta allo sguardo del poeta.

Bonam partem: accusativo avverbiale.

Poterat: falso indicativo, da rendere in italiano con il condizionale passato.

Quem…temptaret: relativa impropria con valore consecutivo.

 

Ritornano qui immagini care a Lucrezio (cfr. V, 933), successivamente riprese da Virgilio [Ita2] [En2], sia nella descrizione della peste bovina del Norico, in cui l’aratro abbandonato diventa simbolo di una sofferenza che accomuna uomini ed animali, impedendo loro di portare avanti il lavoro nei campi con il consueto vigore, sia nell’immagine dei figli morti sopra i corpi dei genitori, ripreso nella descrizione delle anime degli Inferi nell’epillio di Orfeo ed Euridice [Sp1] [Ita3]; ma, mentre in Virgilio l’immagine dei figli uccisi ante ora parentum rappresentava il vertice di una climax che creava un effetto di grande drammaticità, in Lucrezio si vuole sottolineare maggiormente l’impatto visivo, l’orrore di questi corpi ammassati l’uno sull’altro, senza che resti traccia alcuna dello stretto rapporto che, un tempo, aveva legato quelli che erano individui. Ancora una volta un uso sapiente delle figure retoriche porta ad una notevole intensificazione del pathos.

 

Praeterea iam pastor et armentarius omnis
et robustus item curvi moderator aratri
languebat, penitusque casa contrusa iacebant
corpora paupertate et morbo dedita morti.                                                        1255

Exanimis pueris super exanimata parentum
corpora non numquam posses retroque videre
matribus et patribus natos super edere vitam

 

Inoltre ogni pastore di greggi o di armenti

e parimenti il reggitore del curvo aratro, pieno di vigore,

languivano e i loro corpi giacevano ammassati

in fondo alle capanne, abbandonati alla morte dalla povertà e dal morbo.        1255

Talvolta avresti potuto vedere i corpi senza vita dei genitori

sopra i fanciulli senza vita e, viceversa, i figli

morire sopra le madri ed i padri.

 

Praeterea: segna il passaggio ad un nuovo argomento, anche se, in realtà, Lucrezio non fa altro che proseguire nella descrizione degli orrori che la peste porta con sé.

Et…et: polisindeto, in ripetizione anaforica

Robustus…moderator e curvi…aratri; doppio iperbato incrociato; entrambi gli aggettivi sottolineano la fatica fisica del lavoro dei campi, per cui è necessaria una forza che ora, con il diffondersi del contagio, è venuta meno, come sottolinea, efficacemente, il verbo languebat, in enjambement.

Casa contrusa: allitterazione; casa è un ablativo di luogo senza preposizione.

Paupertate et morbo: ablativi di causa efficiente

Corpora…dedita: iperbato, che sottolinea l’enorme quantità dei morti ammassati. Dedita è participio perfetto di dedo.

Exanimis pueris super / matribus et patribus natos super: duplice anastrofe, che, insieme agli enjambements,  alla figura etimologica exanimis…exanimata, con i due elementi seguiti dai due termini allitteranti puer e parentum, intensificano il pathos della descrizione; parentum è, inoltre, iperonimo degli iponimi matribus et patribus, che costituiscono omeoteleuto.

Posses: congiuntivo potenziale.

Edere vitam: altro eufemismo, che attenua la crudezza della morte.

 

Nec minimam partem ex agris maeror is in urbem
confluxit, languens quem contulit agricolarum                              1260
copia conveniens ex omni morbida parte.
Omnia conplebant loca tectaque quo magis aestu,
confertos ita acervatim mors accumulabat.

 

E, non in minima parte, questo triste contagio si diffuse dalla campagna

nella città; lo portò una folla ammalata di contadini                                    1260

che, appestata, proveniva da ogni parte.

Riempivano tutte le piazze e le case; tanto più per l’ardore

della febbre la morte li accumulava così ammassati a mucchi.

 

Nec minimam partem: accusativo avverbiale. Nec minimam costituisce una litote.

Maeror: per metonimia designa la pestilenza.

Languens: è da riferire a copia agricolarum (sogg.), così come il morbida del verso successivo, e riprende, in poliptoto, il languebat (sottolineando il senso di sfinimento imperante) del v. 1254. Copia e conveniens allitterano, contribuendo agli stessi effetti di drammaticità prodotti dalle altre figure retoriche.

Ex omni…omnia / partem..parte: poliptoto, che evidenzia come la morte sia, ormai, ovunque.

Tecta: sineddoche.

Complebant: presenta la concordanza a senso con copia.

Confertos…acervati…accumulabat: immagine ridondante.

 

Nonostante le reminiscenze tucididee (Storie, II, 52,2) nella descrizione dei malati, colti dalla morte mentre, assetati, si trascinano verso una fontana, prevale, in questo frammento, l’occhio lucido e disincantato dello scienziato, che osserva e racconta la realtà indugiando con dovizia di particolari anche sui suoi aspetti più crudi, raccontati attraverso un linguaggio che utilizza molti termini della medicina.

 La costruzione, basata sull’asindeto, di questi versi rende con efficacia l’accumulo di immagini di morte, in un crescendo di orrore; altrettanto efficaci gli enjambements e le numerose allitterazioni (della “p” nel v. 1269, oltre al sordaeque sepulta del v.1271)

 

Multa siti prostrata viam per proque voluta
corpora silanos ad aquarum strata iacebant                                   1265
interclusa anima nimia ab dulcedine aquarum,
multaque per populi passim loca prompta viasque
languida semanimo cum corpore membra videres
horrida paedore et pannis cooperta perire,
corporis inluvie, pelli super ossibus una,                                        1270
ulceribus taetris prope iam sordeque sepulta.

Molti corpi, consumati dalla sete lungo la strada

e trascinatisi verso le fontane, giacevano distesi col respiro                             1265

soffocato dall’eccessiva dolcezza dell’acqua,

e avresti potuto veder morire, qua e là per i luoghi pubblici

aperti e per le strade, molte membra disfatte di corpi semimorti,

orribili per la lordura e coperte di cenci,

nella sozzura del corpo con solo la pelle sulle ossa,                                              1270

(le membra) quasi ormai coperte di piaghe repellenti e di sporcizia.

 

Viam per e silanos ad: anastrofe. Le fontane erano dette Sileni, perché l’acqua usciva dalla bocca di un Sileno, il cui volto era raffigurato sulla fontana stessa.

Proque voluta (= et provoluta): tmesi

Multa…corpora: iperbato che rende l’idea dell’enorme quantità di morti abbandonati nelle strade. Al sostantivo è da riferire anche il participio perfetto di sterno, strata.

Multa…membra: forte iperbato, con lo stesso valore dell’iperbato precedente, che racchiude al suo interno l’allitterazione per populi passim…prompta, dipendente dal congiuntivo potenziale videres, fungendo, inoltre, da soggetto dell’infinito perire.

Semanimo (=semianimo), attributo di corpore.

 

La presenza della morte non risparmia nemmeno i luoghi sacri, dove la folla si era radunata per ottenere protezione e soccorso; al di là del lucido realismo della descrizione, molto forte è, in Lucrezio, l’intento polemico trasmesso attraverso questa immagine, che dimostra quanto sia inutile, ancor più in tali circostanze, il ricorso alla divinità, dal momento che la pestilenza non è una conseguenza della loro ira. L’immagine, desolante, del tempio [En3] [Fr1] [Sp2] pieno di cadaveri, lo stesso tempio che aveva ricevuto, in passato, la visita di molti forestieri, dimostra la futilità della religio tradizionale, che, comunque, verrà calpestata, insieme a molti altri valori, in un momento in cui  il dolore ha il sopravvento (vd. vv. 1276-1286).

 

Omnia denique sancta deum delubra replerat
corporibus mors exanimis onerataque passim
cuncta cadaveribus caelestum templa manebant,
hospitibus loca quae complerant aedituentes.                                 1275

 

La morte aveva riempito, infine, di corpi esanimi

tutti i templi sacri degli dei, e i templi

dei celesti rimanevano tutti pieni, qua e là, di cadaveri,

luoghi che i custodi avevano riempito di forestieri.                       1275

 

Mors: è il termine chiave del passo, l’entità, quasi personificata, che costituisce il soggetto della proposizione, il cui verbo è replerat (forma sincopata per repleverat), che regge il complemento oggetto omnia sancta delubra (in allitterazione con deum, equivalente a deorum) e l’ablativo di abbondanza corporibus exanimis.

Onerataque…manebant: il periodo riprende il concetto della frase precedente, con alcune variazioni lessicali; da notare la funzione predicativa di onerata (in iperbato rispetto al sostantivo di riferimento, templa) e l’allitterazione cuncta cadaveribus celestum (=caelestium, a cui è preferito per ragioni metriche), in cui risulta particolarmente pregnante l’accostamento tra i cadaveri e gli dei celesti, che non possono che contemplare, inermi, lo scempio che la natura ha fatto dell’uomo.  

Hospitibus…aedituentes: Relativa costruita con l’anastrofe; aedituentes (aedes + tueor) è un hàpax legòmenon per aeditui.

 

Nec iam religio divom nec numina magni
pendebantur enim: praesens dolor exsuperabat.
nec mos ille sepulturae remanebat in urbe,
quo prius hic populus semper consuerat humari;
perturbatus enim totus trepidabat et unus                                                          1280
quisque suum pro re [cognatum] maestus humabat
.

Né il culto, né la potenza degli dei erano tenuti

più in gran considerazione: il dolore presente aveva il sopravvento.

Né rimaneva in città quel noto costume della sepoltura,

in base al quale, prima, questo popolo soleva sempre essere sepolto;

infatti, tutto stravolto era preso dalla paura e ciascuno                                          1280

seppelliva tristemente il suo caro secondo le circostanze.

 

 Nec…nec…nec : il polisindeto, in ripetizione anaforica, sancisce la definitiva vittoria del dolore e della morte sugli uomini, che persi, ormai, completamente i loro valori più sacri, si abbandonano alla brutalità di gesti che cancellano ogni residuo di umanità, trasformandoli in bestie.

L’abbandono del culto degli dei e del rituale della sepoltura sono elementi sottolineati anche da Tucidide.

Divom…magni: da notare l’arcaismo divom (in luogo di deorum) ed il genitivo di stima magni

Enim: in posizione di rilievo, posto alla fine della proposizione, dimostra la tragica consequenzialità tra il dominio incontrastato della morte (la cui potenza è evidenziata da exsuperabat) e la perdita di ogni valore religioso e morale.

Ille: unitamente a consuerat (forma sincopata per consueverat), indica l’antichità e la diffusione del rituale della sepoltura, che un autore come Foscolo indicò persino come indizio di civiltà nella sua opera I sepolcri.

Urbe: il termine, posto in rilievo, indica, naturalmente, la città di Atene, un tempo (prius, in forte antitesi con il praesens dolor del v. 1277) culla dell’arte, della cultura e, soprattutto, della filosofia, ormai in preda alla più brutale bestialità.

Perturbatus: predicativo di mos ille sepulturae.

Totus trepidabat: allitterazione, che conferisce maggiore drammaticità al momento

Unus quisque: tmesi. Al  soggetto si riferisce il predicativo maestus. Il predicato humabat è in poliptoto con il precedente humari (v. 1279), a sottolineare come la morte si sia ormai impossessata di tutto.

 

Zuffa e sangue dominano la scena per il seppellimento dei cadaveri; il che, da una parte, spiega l’horrida del v. 1282 (termine precedentemente incontrato nel v. 1269), mentre, dall’altra, suscita un profondo senso di umana pietà in chi considera che questi eccessi erano tutti rivolti allo scopo potius quam corpora deserentur.

 

Multaque [res] subita et paupertas horrida suasit;
namque suos consanguineos aliena rogorum
insuper extructa ingenti clamore locabant
subdebantque faces, multo cum sanguine saepe                                               1285
rixantes, potius quam corpora desererentur.

 

E l’urgenza ed il bisogno li spinsero a molte scelleratezze;

infatti deponevano i propri parenti con alti gemiti

su roghi innalzati per altri e vi appiccavano il fuoco,

azzuffandosi, spesso, con molto sangue,                                                           1285

piuttosto che abbandonare i cadaveri.

 

Multa…horrida: iperbato che sottolinea la grandezza delle scelleratezze causate da res subita et paupertas.

Conanguineos: efficace l’accostamento con aliena, che sottolinea il contrasto tra i due termini; il costrutto del neutro con il genitivo rogorum è frequente in Lucrezio.

Subdebantque faces: lett.: “ponevano sotto le torce accese”.

Sanguine saepe: l’allitterazione, insieme ai numerosi enjambements, sottolineano la drammaticità della scena, in cui trionfa la forza distruttrice della natura.

   8/12   

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