La musica dell'Impero del Mali di Stefano Soldati

MUSICA E CULTURA IN EPOCA PRECOLONIALE

Tra le popolazioni riconducibili al Mandè, la musica è utilizzata come mezzo privilegiato nella trasmissione di messaggi legati all’identità di popolo, ai valori, conoscenze, consuetudini, etc. La musica, in questo caso, è veicolo di messaggi che contengono dati culturali. Questi ultimi, a loro volta, influenzano la produzione musicale stessa. <> (Maurizio Disoteo, antropologia della musica per educatori, milano 2001, p. 42) Sembra chiaro, quindi, che musica e cultura siano intrecciate in modo indissolubile. Probabilmente nel mondo contemporaneo dei grandi centri urbani l’asse del rapporto tra musica e cultura si è spostato. La musica diviene sempre più un oggetto di consumo, un prodotto che interessa e raggiunge le grandi masse. <> (Marius Schneider, il significato della musica, Milano 1979, p 65) Il concetto formulato da Marius Schneider sembra la fotografia delle società tradizionali africane in cui la produzione musicale era legata a due cicli: il ciclo della vita ed il ciclo dell’anno. L’evento musicale, dunque, era legato a cerimonie, riti e celebrazioni che rappresentavano momenti fondamentali della vita individuale e collettiva; riti di passaggio, d’iniziazione, matrimoni, funerali ne sono gli esempi più classici. [F1] (Leonardo d’Amico, Andrei L. Kaye, musica nera dell’africa, Palermo 2004, cfr p 55) Per parlare della musica dell’Impero del Mali non si può dunque prescindere dalla descrizione di alcuni aspetti della società e di alcuni tratti culturali caratteristici. Sory Camara, con il suo libro, Gens de la parole (Sory Camara “Gens de la Parole”, Parigi 1992), ha fornito informazioni interessanti riguardo la connessione tra dato musicale e dato culturale. Di seguito si proporranno alcuni temi presentati dell’autore nel libro. Come sottolineato da Sory Camara, gli studi effettuati, riguardano le province di Siguirì, Kouroussa e Kankan [F1] (Guinea). Questi, infatti, sono stati i luoghi in cui l’autore ha vissuto e di cui ha memoria. I fatti di cui Sory Camara parla sono probabilmente riferibili a tutti i popoli riconducibili al territorio Mandè in virtù di alcuni indicatori comuni quali: la lingua, la concezione del potere e la strutturazione della società. Questo non significa che ogni villaggio, all’interno di questo territorio, non presentasse delle differenze; differenze che potevano riguardare sia la struttura sociale che la forma di un rituale, ma che sostanzialmente esprimevano diverse sfumature di quadri aventi lo stesso soggetto . (Anche quando si parla di musica dell’Impero del Mali, si intende principalmente la musica del Mandè. Dato che l’Impero del Mali è stato formato a partire proprio dal Mandè si ritiene che quella proveniente da questo territorio fosse la musica “ufficiale”, essendo comunque consapevoli che nei territori riconducibili all’Impero esistessero diversi tipi di musica e di strumenti) Prima del periodo coloniale, nella zona di Siguirì, Kouroussa, Kankan ,[F1] si distinguevano tre caste (gruppi ereditari a statuto ineguale): hòròn (casta nobile) : Chi apparteneva a questa casta aveva la possibilità di esercitare il potere politico. Poteva svolgere mansioni nell’esercito, in campo agricolo e nel commercio. Le caratteristiche principali degli hòròn erano: il senso dell’onore, il ritegno ed il buon comportamento nelle situazioni quotidiane. Le virtù richieste agli uomini di questa casta erano, tra le altre: la collera e la resistenza al dolore. Costoro non potevano suonare alcuno strumento musicale per non sviluppare emozioni riconducibili alla dolcezza ed al sentimentalismo, deputate caratteristiche femminili. Nyàmàkàlà [E1] (casta intermedia) : gli appartenenti a questa casta non potevano accedere direttamente al potere politico, non lavoravano in campo agricolo e neanche in quello del commercio. Costoro però non potevano essere imprigionati o ridotti in schiavitù. Questa casta comprendeva coloro che in “occidente” chiamiamo artigiani ed artisti jòn (casta dei prigionieri) : gli esponenti di questa casta avevano perso la libertà a causa di una guerra o per aver commesso dei crimini o per essere caduti in miseria, per incesto o per adulterio. Non potevano esercitare autorità politica e svolgevano tutte le mansioni che gli venivano imposte (dagli hòròn). Ogni casta era composta da diverse famiglie (clan). Ogni clan aveva il proprio jàmù (nome di famiglia), il proprio bèbà (antenato fondatore reale o mitico) ed infine il proprio tànà (totem). Il jàmù non rappresenta solo l’identità di una persona ma risulta essere un titolo onorifico. Lo si pronuncia per rendere omaggio a qualcuno, per glorificarlo in qualche modo. Importante è anche l’antenato fondatore del clan la cui storia è sempre legata ad un animale totemico, un animale che in qualche modo ha salvato la vita dell’antenato fondatore. Dunque clan e tànà sono legati da un’ alleanza indissolubile, tanto che i componenti del clan non possono mangiare la specie di riferimento del loro tànà. La società Malinkè era una società “segmentaria” unita, tuttavia, da un sistema di relazioni di solidarietà. (Sory Camara, op. cit, cfr. p. 26) Tra queste, le due più importanti erano le relazioni matrimoniali e le “alliances à plaisenteries” [F1] [F2] (trad. : alleanze di scherno)(Sory Camara, op. cit, cfr. p 46) I clan Malinkè erano patrilineari ed esogami. Questo ultimo fattore comportava l’apertura dei clan che dunque si potevano legare tra loro. Le relazioni matrimoniali rappresentavano quindi un valido mezzo di unione tra famiglie. Assicuravano lo scambio di servizi (tra due famiglie) come l’aiuto e l’assistenza reciproca, lo scambio di doni in tutte le circostanze importanti della vita. Le “alliaces à plaisenteries” erano delle relazioni inter-claniche caratterizzate da alcuni obblighi, come la mutua assistenza ed il mutuo aiuto (ad esempio il lavoro nei campi). I sànàkù (è la parola Malinkè che indica gli alleati di scherno) dovevano svolgere reciprocamente i riti funerari e, spesso, la toilette del cadavere. Dal punto di vista della comunicazione queste relazioni erano e scandite da turpiloquio ed insulti, che al di fuori di queste relazioni avrebbero provocato forti litigi. Questa particolare funzione dei rapporti di scherno può essere interpretata come importante valvola di sfogo in una società, come quella Malinkè, dominata da relazioni gerarchiche e dove molte emozioni rimanevano inespresse. Infine i sànàkù avevano ruolo di mediatore di conflitti. Se ad esempio un membro del clan Kamara aveva un’accesa discussione con un membro del clan Keita, era un membro del clan Konate che doveva intervenire imponendo calma, silenzio e la cessazione delle ostilità, in quanto i Kamara ed i Konate erano alleati di scherno.

La società Malinkè era una società gerarchica : si distinguevano tra le altre: una gerarchia di casta [IT1] (di cui si è già parlato), una gerarchia di genere, ed una gerarchia d’età. La gerarchia di genere comportava due ordini di conseguenze. Dal punto di vista sociale le donne risultavano sottomesse. Ad esempio, non potevano parlare direttamente con il marito se si trovavano in presenza di altre persone. Se volevano parlare dovevano rivolgersi ad un parente della famiglia che facesse loro da tramite. In secondo luogo, le donne non potevano partecipare alle cerimonie religiose e così vedevano abbassato il proprio status.[F1] [E1] Non potevano partecipare alle cerimonie religiose (così come i bambini) perché non si permetteva loro di partecipare ai riti d’iniziazione. Non venivano mai iniziate (al contrario dei bambini) perché erano tacciate di non saper mantenere un segreto. (Questa credenza era talmente radicata da essere proposta nella “Epopea di Sundiata”, dove Sumaoro Kantè, re di Sosso ed acerrimo nemico di Sundiata, venne ucciso da quest’ultimo in virtù del fatto che la sorella di Sundiata, di cui Sumaoro si era innamorato e a cui aveva confidato il proprio segreto, rivelò a Sundiata il segreto di Sumaoro, (fonte: Djibril Tamsir Niane, “Sundiata, epopea mandinga”, Roma 1991, p. 119). La gerarchia di genere prevedeva una stretta separazione degli spazi. Uomini e donne dormivano in case diverse e mangiavano separatamente. Per quel che riguarda la gerarchia di casta, questa era caratterizzata dalla rigorosa divisione delle funzioni e delle responsabilità sociali di cui ogni individuo si doveva fare carico a seconda della propria casta d’origine (hòròn, nyàmàkàlà, jòn). C’erano poi altri tipi di gerarchie legate all’età, alla primogenitura ed al clan. La gerarchia di genere, di casta e le altre, avevano come conseguenza una distribuzione del potere assai rigida ed ineguale. A questa però si opponeva un meccanismo presente all’interno della società Malinkè : il sistema di “status acquisito”. (Sory Camara, op. cit, cfr. p 176) La guerra, ad esempio, rappresentava per tutti un’opportunità di giungere al potere o di cadere in schiavitù. I jòn potevano diventare governatori di una provincia conquistata o avevano più possibilità di diventare uomini di confidenza dei re, che non si fidavano mai dei nobili. Anche l’arricchimento tramite il commercio permetteva di godere di grande influenza sociale. Questi due opposti meccanismi (“status ascritto” e “status acquisito”) comportavano conflitti e tensioni all’interno della società. Parte di queste tensioni si traducevano in un atteggiamento fortemente agonistico ed ostentativo, soprattutto negli “scambi” di doni e regali che avvenivano durante le diverse manifestazioni sociali che segnavano le diverse tappe della vita degli individui (la circoncisione, il matrimonio, il funerale, etc). Ad esempio, dopo la celebrazione di un matrimonio, si svolgeva una festa dove tutti gli invitati esibivano i regali portati agli sposi. Si inscenava una sorta di esibizione pubblica dei doni, che venivano esaminati e giudicati. Nei villaggi quasi tutti gli abitanti partecipavano a queste manifestazioni. Se fossero stati coinvolti proprio tutti in questo “gioco” di ostentazione, chi avrebbe esaminato e giudicato i doni? Questo compito spettava ai griots per motivi che verranno spiegati in seguito.

6.1 NYÁMÁKÁLÁ

Nel sistema sociale Malinkèla casta dei nyàmàkàlà occupava una posizione intermedia tra le casta degli hòròne quella dei jòn. Gli attori sociali di questa casta erano paragonabili ai “nostri” artisti ed a degli artigiani. I membri che ne facevano parte godevano di alcuni privilegi. Non potevano, ad esempio, essere ridotti in schiavitù e non potevano essere imprigionati. Di contro erano i terminali di un misto tra disprezzo e timore a causa (probabilmente) dei materiali che utilizzavano e dei ruoli che svolgevano nella vita sociale. La casta dei nyàmàkàlà era composta da: I Finà : oratori, poeti, declamatori, cantanti e narratori. Svolgevano lo stesso compito dei griots ma non suonavano alcuno strumento musicale. L’unico loro strumento era la propria voce. I Djeli(griots) : oratori, poeti, declamatori, cantanti , narratori e musicisti I Nùmù : lavoratori del ferro: i fabbri I Kàràkè : erano coloro che conciavano le pelli e lavoravano il cuoio. I Kùlè: lavoravano il legno e la zucca. I griots (djeli) svolgevano un ruolo fondamentale nella società Malinkè. Mediavano le relazioni tra i diversi clan di hòròn, e tra la casta degli hòròn e quella dei jòn. Quando i nobili che esercitavano una qualche carica istituzionale si volevano rivolgere a dei loro subordinati, trasmettevano il messaggio al proprio griot che l’avrebbe poi trasmesso ai destinatari. L’essenza dei griot era dunque la parola.

Oltre a questa, i djeli utilizzavano la musica come mezzo di comunicazione e dunque sapevano suonare diversi strumenti musicali. Tra questi, venivano considerati i più importanti quelli che mettevano in evidenza proprio la parola. A seconda del tipo di strumento suonato, ai griots veniva riconosciuto un diverso staus sociale. Vi erano strumenti considerati a “vocazione maschile” e strumenti considerati a “vocazione femminile”. Tra gli strumenti a “vocazione maschile” si potevano elencare : la voce, il bòlòn,[F1] il n’gònì,[E1] la kòrà[F1] (strumenti a corde), il fùlè, il bùdù (strumenti a fiato). A metà strada tra gli strumenti a “vocazione maschile” e quelli a vocazione femminile si trova il bàlà [F1] [F1] (xilofono). Tra gli strumenti a “vocazione femminile” c’erano: i dununs, il djèmbè ed il tàmànì [F1] (percussioni). Se un griot suonava uno strumento a corde (strumenti prediletti) o a fiato o se era un fìnà, partecipava alla vita degli uomini (cioè alla vita politica) e dunque vedeva il proprio status aumentare. Questi griot potevano acquisire un’influenza considerevole nel gruppo degli uomini. Venivano chiamati infatti djeliba (trad.: : grande , djeli: griot). Gli strumenti a corde venivano considerati i più importanti perché il musicista, per far suonare il proprio strumento, doveva utilizzare solamente le dita, e dunque poteva cantare senza sforzo ed anzi, la melodia suonata esaltava la voce stessa e dunque la parola. I griots (e soprattutto i suonatori di strumenti a corde e i fina) avevano un ruolo fondamentale nella celebrazione delle cerimonie e dei riti. Infatti costoro, possedendo il “dono della parola”, sapevano esprimersi con discorsi e canzoni che riuscivano a suscitare nella folla le emozioni più “consone” alle diverse situazioni. Erano loro che cantavano ad esempio gli elogi o che celebravano i riti funerari. Avevano padronanza della lingua e sapevano utilizzare il linguaggio poetico. Avevano la capacità di creare quella tensione emotiva adatta alla celebrazione di riti e cerimonie in virtù del fatto che venivano educati, sin da piccoli, a cantare le diverse emozioni proprie dell’essere umano. Queste erano abilità che i nobili Malinkè non potevano possedere, dato che, al contrario, erano educati a sviluppare qualità come la collera ed il coraggio. I griots che suonavano strumenti a percussione non erano considerati positivamente, perché animavano i festeggiamenti femminili, espressi tramite le danze. Le percussioni sono strumenti ritmici che stimolano la danza. I tamburi ed i ritmi provocano delle reazioni viscerali. Le vibrazione trasmesse dalla membrana del tamburo mettono in movimento le pareti addominali e si prova un forte impulso che spinge al movimento. Da un punto di vista psicologico, la danza rappresentava, per le donne, una grande valvola di sfogo. I ritmi suonati per le danze femminili erano molto veloci e frenetici e le danze erano spossanti. Le donne, continuamente, soggette a sottomissioni e costrizioni, potevano così liberare tensioni ed aggressività accumulate. I griots, che suonavano le percussioni, inoltre, non potendo suonare e cantare contemporaneamente (per problemi legati al volume dello strumento e all’energia che si impiega per farlo suonare), erano accompagnati dalle donne, tipicamente dalle mogli (griottes) che si occupavano della parte canora. Tutte queste ragioni portavano le percussioni ad essere considerate strumenti a “vocazione femminile”. La casta dei nyàmàkàlà prevedeva una endogamia rigida. I membri di questa casta potevano sposarsi solamente tra loro. L’appartenenza alla casta era dunque ereditaria. I nyàmàkàlà svolgevano dei compiti che i nobili non potevano svolgere, come lavorare il ferro, il legno. Ma un nyàmàkàlà poteva anche lavorare nei campi o nel commercio. Inoltre c’erano alcuni compiti delicati che dovevano essere necessariamente svolti dai componenti di questa casta. Ad esempio, rasare i capelli, la circoncisione, l’asportazione del clitoride (per i Malinkè era impura ogni cosa che sporgesse).

I nyàmàkàlà, e soprattutto i griots, erano disprezzati, mal visti, nonostante svolgessero dei compiti, dal punto di vista sociale, molto importanti. Sulle ragioni di tanto disprezzo, Sory Camara cita D. Zahan che nel suo libro “La dialectique du verbe chez les Barbara” affronta anche questo argomento (p.129). Zahan racconta come tra i Bambara l’uomo fosse considerato schiavo o uomo in ragione del mestiere che esercitava e dei materiali che manipolava. A questo proposito Zahan pone degli esempi con cui cerca di spiegare il risvolto psicologico del disprezzo verso i nyàmàkàlà a partire dagli oggetti manipolati. Racconta che tra i Bambara si dicesse che i Kulè fossero anormali dal punto di vista sessuale. Perché? Perché costoro lavoravano il legno e le calabasse (zucca) che tra i Bambara rappresentano simbolicamente gli organi maschili e femminili. Da qui parte l’idea che i kùlè lavorassero per il sesso e con il sesso. Sory Camara non è però d’accordo con questa analisi in quanto Zahan non fornisce un meccanismo psicologico preciso. Sory Camara invece pensa che il disprezzo provato nei confronti dei nyàmàkàlà fosse dovuto ad un meccanismo psicologico inconscio. I nobili, secondo l’autore, dovevano separare ciò che è superiore (hòròn), da ciò che è inferiore (nyàmàkàlà). Questo è dimostrato dal fatto che i nobili non potevano fare i lavori dei nyàmàkàlà e che non potevano unirsi a loro in nessun modo (neanche sessualmente: pena la declassamento sociale). Dunque i nobili non si identificavano nei nyàmàkàlà e dunque li giudicavano negativamente. Questo poteva tradursi, sul piano psicologico, in disprezzo. Sory Camara continua nella propria analisi considerando il tema del disprezzo partendo dal concetto di gerarchia (nella società Malinkè). Tale concetto è legato ad altri due: puro/impuro e potente/impotente. All’aumento della purezza e della potenza (forza) corrisponde un aumento di status, mentre una perdita di potenza corrisponde alla non purezza e dunque ad una decadenza sociale e morale. Prendiamo ora in considerazione la vita sociale dei nyàmàkàlà facendo riferimento al concetto puro/impuro. I nyàmàkàlà svolgevano dei compiti che riguardavano la vita organica dell’uomo e della donna, che nella società Malinkè era considerata cosa impura. Tagliavano i capelli, si occupavano della circoncisione maschile e femminile e del parto. Inoltre i nyàmàkàlà avevano a che fare con i defunti. Si occupavano di lavare il cadavere (questo compito lo potevano svolgere anche i sànàkù o i wolosso). La morte tra i Malinkè era considerata la più grande impurità ed era contagiosa, dunque chi aveva contatti con il defunto ne era contaminato. Da questa spiegazione si evince come gli stessi compiti assegnati ai nyàmàkàlà li rendano impuri e dunque impotenti. Se analizziamo la vita dei nyàmàkàlà prendendo in considerazione il concetto di potenza notiamo come la mancanza della stessa potenza, (forza) da parte degli uomini di questa casta, fosse dovuta alla vicinanza della donna (le mogli dei griots, le griottes, spesso cantavano a fianco del marito che suonava) da una parte, e all’espressione di emozioni e di sentimenti (caratteristica femminile), dall’altra (verranno riportate in seguito delle altre motivazioni che spiegano il disprezzo di cui i griots sono oggetto). I griots erano gli unici che potevano suonare e danzare senza subire una decadenza dal punto di vista sociale. Si verificavano, però, delle eccezioni. Ad esempio i wòlòsò (trad. : wòlò = generatore, costruttore, = villaggio, casa), potevano danzare e suonare e in alcune occasioni potevano anche sostituire i griots nei compiti da svolgere. I wòlòsò erano dei jòn, ma avevano più diritti. Non potevano essere venduti o maltrattati senza motivo, lavoravano cinque giorni per il padrone e i restanti due potevano cercare di lavorare in proprio trattenendo il denaro guadagnato. Un’altra eccezione era rappresentata dal rito di passaggio della circoncisione. Durante questo rito gli uomini di estrazione nobile dovevano suonare uno strumento e cantare. Suonavano uno strumento chiamato wàsàbà (sistro liturgico). Le donne di estrazione nobile potevano invece suonare sempre, anche se possedevano pochi strumenti ed anche rudimentali, come lo tàsàdànì, e il kùdè. Il primo era costituito da due piccoli recipienti in zucca, uniti da una cordicella, contenenti perle o dei sassolini. Le donne lo usavano per ritmare il proprio canto. Il kùdè era una sorta di cilindro sempre in zucca ornato da perle che veniva usato percuotendolo con la mano destra su una delle due estremità e facendo rimbalzare l’altra estremità sulla coscia nuda. Un terzo strumento usato dalle donne era il tamburo ad acqua, il djììdunun. Questo strumento si suona percuotendo una zucca rovesciata sopra un’altra, avente maggior diametro, contenente dell’acqua. (Sory Camara, op. cit, cfr. p 117)

6.2 LA VITA DEI GRIOT

Sory Camara riporta i racconti del griot djeli-Diarrà Guèckèdou (Guinea). Nella regione di Konian (Mali) quando nasceva un griot era consuetudine che i genitori spegnessero il fuoco in casa e che lanciassero degli utensili da cucina fuori dalla casa. Questa procedura annunciava l’evento ai vicini. Costoro, allora, dovevano portare alla famiglia del nuovo nato tutto il necessario per il bambino e per la madre: vestiti, cibo, noci di kola e regali di ogni sorta. Questo era un rito che significava che il piccolo griot era venuto al mondo in una casa vuota e che le condizioni materiali gli sarebbero state assicurate dagli altri. Tra i Malinkè era molto importante la pratica della reciprocità. Ogni famiglia era obbligata in talune occasioni, (cerimonie), a donare qualche cosa. Un elemento che distingueva i griots dagli altri riguardava la pratica della reciprocità. I griots non donavano mai, ricevevano sempre ed anzi potevano esigere doni e cibo. Come si è visto questo meccanismo cominciava sin dalla nascita. La vita dei griots, fin dalla più tenera età, seguiva un binario parallelo rispetto alla vita dei nobili. Ad esempio durante l’infanzia i bambini Malinkè avevano l’abitudine di sfidarsi fisicamente per stabilire la gerarchia all’interno del gruppo; in questo caso i piccoli griots facevano da arbitro. C’erano poi delle lotte che venivano ritmate dai tamburi (djembè e dununs). Queste avvenivano perché i giovani Malinkè di diverse età si affrontassero fisicamente. Durante queste lotte veniva suonato un ritmo chiamato dudumbà,[F1] che ancora oggi è uno dei ritmi più famosi sia in Africa occidentale sia in Europa. Dununba rappresenta una famiglia di ritmi. Si contano diversi tipi di dununba, che hanno differenti nomi. Mamady Keita nel libro “une vie pour le djembè”, redatto da Uschi Billmeier, spiega come una cerimonia (festa) dunumbà si svolge. << Il gruppo dei più vecchi, chiamato baratigi (grossomodo tra i 20 ed i 25 anni), godeva di più diritti e libertà di decisione rispetto al gruppo dei più piccoli (dai 15 ai 20 anni circa), chiamati baramakono. Ad un certo punto, i giovani volevano liberarsi dalla tutela dei più vecchi e prendere il loro posto. Lo fanno sapere al capo dei baratigi recapitando simbolicamente dieci noci di Kola. In occasione di questa disputa, viene organizzata la festa del dununba. Erano, un tempo, delle gradi feste alle quali partecipava tutto il villaggio. I ballerini avevano la fronte cinta da una benda ed indossavano dei pantaloni larghi. In una mano tenevano un’ascia e nell’altra una frusta in pelle d’ippopotamo. All’inizio della festa,si suonava, per esempio i ritmi Dunungbè [F1] o Gbada, poi i due gruppi passavano l’uno accanto all’altro formando due cerchi. Alla fine, gli uomini si ritrovano faccia a faccia (schierati) su due linee, il combattimento poteva cominciare. I due gruppi si frustavano a vicenda a turno, fino a che uno dei due gruppi abbandonava. Un tempo, tali combattimenti terminavano nel sangue. Oggi ci si accontenta di una forma più ludica e senza combattimento o di un’allusione al combattimento. I ritmi Dununbà hanno degli elementi musicali comuni : il tempo è andante ed il kenkeni suona sempre la stessa figura. Dal punto di vista della musica, il dununba ed il sangban giocano i ruoli principali, il ciclo della frase dei Dudunbà può essere molto lungo. Esiste un gran numero di variazioni e differenti forme di èchauffement per ogni ritmo. Non tutti i ritmi Dudunbà richiedono passi di danza di combattimento. Dudunbà è ai nostri giorni un ritmo popolare, molto stimato in tutta la Guinea. In forme un po’ differenti, è oggi suonato anche negli altri paesi dell’Africa occidentale. I dunun sono suonati molto diversamente in questi ritmi. >> (Uschi Billmeier, Mamady Keita, un vie pou le djembè, Engerda 1999, pp 60-61) Interessante è anche il contributo di Sory Camara. <> e l’altro raccoglie la sfida :<< è tracciato sulla schiena dell’uomo>>. Allora i due si impegnano in una violenta flagellazione reciproca : ognuno offre la propria schiena all’altro dopo aver frustato quella dell’altro con la propria frusta. Gli antagonisti ostentano un sorriso di sfida mentre il sangue cola sulla schiena. Se dopo un certo periodo di tempo, deciso dagli spettatori, il più giovane resiste sufficientemente, viene interrotto l’incontro. Costui viene dunque ammesso nel rango dei più vecchi. >> (Sory Camara, op. cit, p. 58) L’autore continua dicendo che verso il 1950 l’amministrazione coloniale ha vietato la flagellazione reciproca. Ma i giovani hanno continuato gli incontri cambiando formula. Gli avversari si piazzavano l’uno di fronte all’altro e ognuno colpiva se stesso. Questo, aggiunge, accadeva a Kankan. Sembra importante riportare questi due racconti riguardo lo stesso soggetto, poiché, anche se nell’insieme sono molto simili, contano delle differenze. Probabilmente le differenze riscontrate sono dovute al fatto che le cerimonie descritte si svolgevano in villaggi diversi. Questo allora può far comprendere come le danze, i ritmi, le storie raccontate possano variare da villaggio in villaggio e come dunque sia difficile (se non impossibile) poter classificare in modo organico i fenomeni descritti. I giovani griots non partecipavano alla lotta durante la cerimonia appena descritta, ma dovevano invece partecipare ai riti di passaggio previsti dalla società Malinkè.

Il primo rito a cui erano sottoposti tutti i giovani Malinkè, era quello della circoncisione. Anche in questa circostanza l’evento era scandito dai djembè e dai dununs. Veniva suonato il ritmo conosciuto come Solì. << Solì accompagna i riti di iniziazione e di circoncisione. Contrariamente a quanto si osserva a Conakry, in campagna non si sente mai questo ritmo al di fuori dai riti fondamentali ai quali è legato. Sebbene oggi la circoncisione abbia luogo all’ospedale (si pratica sui bambini di quaranta giorni), questo ritmo segnala ancora il passaggio all’età adulta. Un tempo, lo si suonava quando gli anziani del villaggio avevano deciso che i bambini (dall’età di sette anni) sarebbero stati presto iniziati. A quest’epoca, questa decisione non veniva presa dalle singole famiglie, era il villaggio che insieme decideva per tutta una fascia d’età e che fissava la data dell’iniziazione. Si cominciava a suonare soli tre mesi prima della circoncisione, ma non tutti i giorni. Per contro lo si sentiva tutti i giorni a partire dalla settimana precedente la circoncisione, e dalla preghiera, della sera della sera prima, alle sei della mattina (dopo).>> (Uschi Billmeier, Mamady Keita, un vie pou le djembè, Engerda 1999, p 64) Dopo la circoncisione i giovani griots cominciavano la formazione. Si applicavano nella recita della storia genealogica dei clan del proprio villaggio, si specializzavano in uno o due strumenti musicali. Il tutto avveniva tra le mura domestiche. In seguito il giovane griot doveva cercare una famiglia in cui esercitare la propria arte, ed ogni famiglia che avesse un potere, aveva un griot, affinché questi potesse sottolineare la posizione di potere sociale ed economico della famiglia stessa. La conoscenza di un griot non era limitata alla storia di una sola famiglia, anche per ragioni pratiche. Infatti una famiglia che in un primo momento fosse stata priva di potere avrebbe potuto acquisirlo in un secondo momento e dunque per un griot era importante conoscere la storia di più famiglie possibili per avere più occasioni possibili di impiego. La famiglia hòròn si prendeva carico completamente del proprio griot. Anche quando questi si sposava. I griot potevano scegliere la propria moglie solo tra i nyàmàkàlà. Spesso, però, i griot si sposavano con delle griottes perché cercavano una moglie che avesse una bella voce e che potesse cantare. Un altro ruolo sociale che i griots avevano era legato alla guerra. Durante le battaglie suonavano i tamburi di guerra ed infondevano coraggio ai combattenti cantando loro le epiche imprese degli antenati. Ma erano anche pronti, una volta tornati dal fronte, a cantare la vergogna di chi avesse mancato di coraggio durante la battaglia. Durante i combattimenti i griots non venivano uccisi (quando fosse stato possibile distinguerli tra i combattenti) e se venivano catturati non venivano fatti prigionieri. Cambiavano semplicemente padrone. (Sory Camara, op. cit, cfr, pp 134-135)

Come si diceva poco prima, i griots erano spesso oggetto di disprezzo. Prova tangibile di questo disprezzo era la prassi della loro sepoltura. Costoro, secondo quanto riportato da Alvarez d’Almada, (scrittore portoghese del sedicesimo secolo) l’ora della morte, venivano seppelliti negli alberi perché si credeva che se fossero stati sepolti in terra non avrebbe piovuto durante tutto l’anno o che il paese sarebbe stato afflitto da altre calamità. (Sory Camara, op. cit, cfr p 137) Sory Camara cerca di trovare delle motivazioni pratiche del disprezzo di cui i griots erano oggetto. Il comportamento dei djelì sembrava deviante rispetto al comportamento degli altri membri della società ma allo stesso tempo tale comportamento era in linea con il modello di vita dei griot. Infatti l’autore parla di comportamenti singolari. I griots, ad esempio, non rispondevano al criterio della reciprocità. Non facevano mai doni, ma li ricevevano solamente, ed anzi li pretendevano. E’ interessante notare che tra i Malinkè, quando qualcuno riceve un dono, perde una parte della propria dignità di uomo libero. Per questo motivo il dono viene sempre ricambiato. Spesso poi, i griots pretendevano dei doni preziosi; non si accontentavano insomma. A questo proposito Sory Camara racconta un episodio legato alla propria infanzia. Narra di quanto in un momento di carestia ci fosse poco da mangiare al villaggio. Il riso era introvabile, ma suo padre che viaggiava molto, era riuscito a portarne un po’ a casa. Una griotte era venuta a conoscenza della faccenda e all’arrivo del padre di Sory si presentò davanti casa e chiese da mangiare. La madre le offrì della manioca (una radice) e del petit mil, ma la griotte non volle sentir ragioni e frugò in tutta casa alla ricerca del riso che poi trovò sotto il letto. Da quel giorno si recò a casa di Sory e della sua famiglia ogni volta che sentiva arrivare il camion del padre. (Sory Camara, op. cit, cfr. p 139-140) Ai griots non si poteva rifiutare niente, ciò che chiedevano bisognava dare. Sory continua dicendo che i griots partecipavano allo scambio (inteso come reciprocità), ma si trattava di un altro tipo di scambio. Infatti il griot offriva dei servizi ( cantare le lodi, animare le cerimonie, fare da arbitro, da mediatore, etc) difficili da quantificare. Un altro comportamento singolare dei djelì riguardava la libertà d’espressione. Gli hòròn si distinguevano per il loro linguaggio discreto e misurato. (eccezione fanno i rapporti con i sànàkùnà e gli improperi che potevano lanciare mentre si suonava il ritmo solì). A loro era vietato usare parole che avessero un riferimento sessuale. Di contro, i griot non avevano limiti nell’uso della parola. Come già riportato sopra, non si limitavano a cantare gli elogi dei forti, dei coraggiosi e di coloro che fossero generosi nei loro confronti, ma potevano anche infamare la memoria dei codardi, dei deboli, o degli avari nei loro confronti. Non tutti i griots cantavano le stesse cose o parlavano nello stesso modo. Gli atteggiamenti assunti dipendevano dal temperamento di ognuno e dalla posizione sociale. I griots di corte, ad esempio, non potevano permettersi di pronunciare oscenità. Abbiamo sin qui analizzato diverse caratteristiche riconducibili ai griots.

Sembra dunque interessante sottolineare l’esistenza di alcuni miti che narrano e spigano queste caratteristiche, come ad esempio :

- l’impotenza

- la parola

- lo sproloquio

- la musica

Per ragioni legate al soggetto della tesi verrà presa in considerazione solamente una leggenda riguardante il rapporto tra il griot e la musica. Per quanto riguarda le altre leggende si può far riferimento al libro di Sory Camara. (Sory Camara, op. cit, da pag. 143 a pag 166) Questa leggenda è stata descritta da G. Dieterlen che scrive: << Il mito racconta la storia della creazione del mondo da parte del Dio (Mangala), che ha dapprima creato i semi di due tipi di elusina (erba di ranuncolo in nota) ed, in seguito, sei altri semi di cereali, associando a questi otto semi i quattro elementi ed i quattro punti cardinali. Gli otto semi, avvolti in un seme d’hibiscus, costituivano “l’uovo del mondo” ed in ognuno di essi due gemelli di sesso differente venivano concepiti. All’interno dell’uovo del mondo c’erano, anche, due coetanei dei gemelli, ogni coetaneo comprendeva un maschio ed una femmina – gli archetipi dei futuri esseri umani. Uno dei gemelli maschi, Pemba, che è uscito prematuramente dall’uovo, è sceso sulla terra, dopo aver rubato gli otto semi maschi, che poi ha seminato. Quest’atto colpevole ha reso la terra ed i semi impuri e, per purificare la terra, Faro, l’altro gemello maschio, è stato sacrificato ed è stato tagliato in sessanta pezzi, che son caduti sulla terra dove si sono trasformati in alberi. Faro, in seguito, è stato fatto resuscitare ed è sceso sulla terra in un’arca (o arco) con gli otto antenati mitici dell’Uomo. >> (fonte: [F1] Gli otto antenati erano formati da 4 coppie di gemelli di cui i maschi si chiamavano Kanisimbo, Kaniyogosimbo, Simboumba Tagnagati e Nounou. (Sory Camara, op. cit, cfr p 158) Come possibile verificare dal link del testo trovato su internet è solamente un abstract, dunque per la continuazione ci affidiamo al testo di Sory Camara che cita lo stesso documento. << L’antenato dei griot, Sourakata, creato dal sangue di Faro, scese, al momento dato, dal cielo a Kiri Koro, tenendo tra le mani il cranio di Faro sacrificato, che fu il primo tamburo. Lo suonò una sola volta per domandare la pioggia, poi lo posò in una delle caverne di Ka. L’antenato dei fabbri, creato dal sangue dell’evirazione, scese dopo di lui, non lontano da Kri, mentre Musso (trad. : donna) Koroni Koundye, la gemella di Pemba, scese a Bounan grazie al vento. Costatando la persistenza della siccità, il fabbro percosse una roccia per domandare la pioggia, e l’acqua, cadendo dal cielo, riempì lo stagno, koroko, poi andò disperdendosi nel folto bosco.>> (Sory Camara, op. cit, p. 158) Il mito continua e G. Dieterlen ha diviso il racconto in quattro parti. Per questioni legate al soggetto della tesi si procederà con la traduzione della terza parte intitolata : “Rivelazione della seconda parola” :<< Per trasmettere questa parola ( si parla qui della prima parola arrivata agli uomini –nko, io parlo- custodita da Simboumba Tagnagati.), Simboumba Tagnagati decise di sacrificare i primi gemelli misti nati da questi matrimoni celebrati nel santuario della montagna Lu Daga Blon. Ordinò, in seguito, ai griots di fare un tamburo d’ascella, un tama, con le pelli dei gemelli. Simboumba Tagnagati, accompagnato da alcuni uomini, seguì il fiume lungo la riva destra dirigendosi verso est; a Samà passarono sulla riva sinistra. Solo il griot restò sulla riva destra. Simboumba Tagnagati, suonando il simbo, una campanella di ferro forgiata ad immagine della bocca di Farò, pronunciò cinquanta parole mentre il griot le ripeteva, dall’altro lato del fiume, suonando il tama' da tutte e due le parti dello strumento, quella maschile e quella femminile. Questo accadeva a Tamani. Poi gli uomini tornarono a Kri. Ma due personaggi continuarono il cammino verso l’est : furono Nounou ed il griot>> (Sory Camara, op. cit, p. 162) Sory Camara usa queste parti di mito per dare una sorta di fondamento storico a quelle che sembrano essere alcune delle caratteristiche dei griots. Dal secondo estratto riportato si evince la comune origine del griot e del fabbro e che costoro sono stati generati diversamente. Non nascono, infatti, dall’uovo, da cui nascono gli altri, ma nascono dal sangue di Farò. Inoltre si può osservare l’incapacità da parte del griot di agire sul mondo fisico (tema dell’impotenza che dunque sembra congenita). Nel terzo estratto sono messe in luce le caratteristiche del griot : la ripetizione e dunque la memoria, l’uso della parola e della musica. Inoltre in questa parte di racconto viene detto: << ripeteva, dall’altro lato del fiume, suonando il tama.>> (Sory Camara, op. cit, p. 162) Questa parte può far pensare ad uno stretto legame tra frase del tamburo e frase linguistica. E’ noto che i griot facciano parlare lo strumento suonato nella lingua d’appartenenza. Lo stesso strumento, ad esempio il djembè, se suonato da un Malinkè parlerà Malinkè, se suonato da un Bambara parlerà Bambara, e così via. Inoltre in lingua Malinkè, ma anche in Dioula od in Bambara, il termine suonare è tradotto con la parola “fò” che significa, appunto, parlare. Si è fatto, prima, riferimento all’incapacità del griot di agire sul mondo fisico. Per contro il griot ha facoltà di agire sul mondo immateriale. Come scrive Sory Camara i Malinkè descrivono 4 aspetti della persona umana. La scorza, l’anima, l’ombra e lo spirito. (Sory Camara, op. cit, cfr p 165) Per il soggetto di questo lavoro è interessante analizzare il terzo aspetto : l’ombra. Questa è dapprima l’ombra che si proietta sul terreno o che è riflessa dall’acqua. Inoltre rappresenta il doppio immateriale della persona. L’ombra può uscire dal corpo (senza che la persona muoia) e vivere indipendentemente. Nei sogni, ad esempio, è l’ombra che agisce. L’ombra può essere messa in moto da un rumore improvviso e può essere influenzata dalla musica. Dunque, se si analizza la figura del griot da questo punto di vista, possiamo ipotizzare che questa funga da “medium” tra il cielo e la terra. In epoca pre-coloniale, dunque, il griot era una figura molto ambigua. Disprezzato e temuto, era considerato arbitro indispensabile nella società. Con la sua musica e la sua parola mediava tra il mondo spirituale e quello terreno, tra gli hòròn ed i jòn, tra l’uomo e la donna. Animava celebrazioni, rituali e feste. Veicolava emozioni ed era interprete dei sentimenti della società.

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Edurete.org Roberto Trinchero