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		  ERCOLE
		   
		  
		  
		  Nota quasi come quella di Teseo, ma ancor più 
complicata e multiforme, la vicenda di Ercole [I1]   [E1]  [E2] [E3]   [E4]   [E5]  [F1]   [F2]   [F3]   [S1] (Eracle per 
i Greci) rappresenta per molti versi un esempio paradigmatico dell'eroe 
classico che opera per imprese individuali. Egli discendeva direttamente 
da Perseo, anche se, come per Teseo, i mitografi  [F1]  sono tutt'altro che 
concordi per quanto concerne il suo albero genealogico. Secondo alcuni 
egli era addirittura figlio di Zeus, che, come suo solito, si presentò 
alla madre Alcmena  [I1]   [E1]  [F1]  sotto le mentite spoglie del suo legittimo 
sposo Anfitrione  [E1] .  
Le avventure  [E1]  che vedono il nostro come proteganista 
sono, davvero troppe per pensare di tracciarne un sia pur breve quadro 
sinottico in questo spazio. Cercheremo piuttosto di tracciare 
un'immagine complessiva della figura dell'eroe, aiutati dall'estrema 
notorietà del personaggio e dal suo carattere fortemente archetipico 
rispetto ad un'idea astratta di "eroe" mitologico. Ercole è sicuramente 
il primo tra i molti personaggi della mitologia classificati come "eroi" 
ad essere chiamato in causa quando ci si avvicina all'argomento, quasi 
racchiudesse in sé tutte le virtù (e i limiti) che si riconoscono ai 
rappresentanti della categoria.   Il suo nome  [i1] , che nella forma greca 
significa "Gloria di Era", è strettamente legato alle sue 
imprese: gli fu imposto da Apollo per porre in evidenza che le 
fatiche da lui intraprese erano dedicate alla madre degli dei . 
Inizialmente, il suo nome, secondo alcuni mitografi, era Alcide, 
che significa "discendente da Alceo", suo nonno, che a sua volta 
era figlio di Perseo. 
La scelta di affrontare questo personaggio alla fine 
del percorso, come ultimo mito individuale, non è casuale: proprio la 
specificità del personaggio consente di riassumere in esso tutto il 
percorso affrontato precedentemente in un quadro coerente, anche se 
certo non organico. 
Partecipando della natura umana e di quella divina, il nostro era 
realmente rappresentato come una figura intermedia tra terra e Olimpo, 
tra comuni mortali e dei. Oltre ad una forza proverbiale, esso era poco 
(o nulla) soggetto agli effetti del passare del tempo. Le sue doti 
fisiche miracolose non tardarono a manifestarsi: dapprima inviso ad Era [I1] , 
ingelosita dalle continue scappatelle  [I1]  dell'irriducibile marito Zeus, 
quando egli non aveva che pochi mesi d'età, la dea cercò di eliminarlo 
introducendo nella camera in cui dormiva due enormi serpenti. Il 
pargolo, tutt'altro che impaurito, ebbe forza sufficiente per 
strangolare entrambi senza alcuna difficoltà.  
Anche Ercole, pur essendo in età classica conosciuto 
e venerato in tutto il bacino del Mediterraneo, legava il suo nome ad 
una specifica regione della Grecia antica, l'Argolide  [F1] , situata 
nel Peloponneso. Nonostante ciò, il suo mito fu particolarmente popolare 
a Roma: famosa l'esclamazione latina "mehercle", della quale conserviamo 
innumerevoli testimonianze e che fa diretto riferimento alla sua 
figura. 
Senza addentrarci nelle intricate vicende della sua vita, possiamo 
soffermarci brevemente sulla leggenda che ne narra la morte. Ricordiamo 
che, pur non essendo immortale, egli era dotato di una resistenza fisica 
tutta particolare. Egli, dopo diversi altri matrimoni e dopo avera avuto un numero elevatissimo di figli  [E1]   [F1] , sposò  [I1]  la bella Deianira  [I1]   [E1]  [F1] , che fu la causa della sua fine. Un giorno si trovò a dover attraversare il fiume Eveno in compagnia della sua dolce consorte: proprio in quell'istante, sopraggiunse il centauro Nesso  [E1] , che si offrì di traghettarla sull'altra sponda per evitarle lo spiacevole contatto con l'acqua. L'eroe lo credette sincero e non si oppose, ma, appena guadato il fiume, Nesso fuggì con la sua preda. Nonostante l'agilità del quadrupede, Ercole, in men che non si dica, trafisse il petto del temerario provocandone la morte. Il centauro ebbe tuttavia il tempo sufficiente per consegnare a Deianira la sua tonaca intrisa del suo sangue velenoso, come quello di tutti i suoi simili. Egli le fece credere che il suo abito avrebbe avuto all'occasione virtù miracolose nel curare la pervicace infedeltà del marito, suggerendole di farglielo indossare qualora si fosse invaghito di altra donna.  
Quando ciò avvenne (e non si dovette aspettare troppo a lungo), la donna ignara presentò all'eroe la camicia come un dono, testimonianza del suo affetto. Tuttavia, appena l'ebbe indossata, il mortifero veleno esplicò istantaneamente la sua venefica azione sottoponendo Ercole a sofferenze immani.  
In questa situazione, egli preferì darsi la morte facendosi ardere su di una pira eretta sulla vetta del monte Oeta.  
		  
		   
		  
		  
		  
		   
		  
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