Platone: La Repubblica, tra progetto e utopia di Giada Leonardi (giadaleonardi@yahoo.it) e Laura De Cantis (l.decantis@libero.it)

TEMATICHE DI APPROFONDIMENTO: LA GIUSTIZIA

Nel primo libro, Socrate è chiamato a discutere la tesi, di stampo sofistico, secondo la quale l’ingiustizia è da preferire, in quanto rende più felici, alla giustizia [I1] [I2] [E1] [Es1].
Dopo alcuni tentativi di confutazione, Socrate individua nella definizione della giustizia l’obiettivo a cui deve mirare la discussione. A tal fine, istituisce un’analogia tra la giustizia intesa come virtù dell’individuo e la giustizia come virtù fondamentale dello stato, e invita a cominciare dall’indagine di quest’ultimo.

Lo Stato ideale descritto da Platone è costituito da tre classi:
1) Governanti-Filosofi
2) Guerrieri
3) Produttori

La divisione in classi, secondo Platone, è una risposta ad una necessaria esigenza degli uomini: in uno Stato vi sono compiti diversi che devono essere esercitati da individui diversi.
La diversità tra gli uomini e la loro differente collocazione all'interno dello Stato dipende dalla preponderanza di una parte dell'anima sulle altre:

1) Gli individui prevalentemente razionali saranno naturalmente portati alla sapienza e al governo

2) Gli individui prevalentemente impulsivi saranno naturalmente portati ad essere dei guerrieri

3) Gli individui prevalentemente soggetti ai desideri corporei saranno naturalmente indirizzati verso i lavori manuali

Le virtù fondamentali dello stato sono quattro:

1)La saggezza, incarnata dai dalla classe dei governanti
2)Il coraggio, incarnato dalla classe dei combattenti
3)La temperanza, che appartiene a tutte e tre le classi
4)La giustizia

La giustizia è una sorta di risultante delle altre tre virtù nel senso che si realizza quando ogni cittadino, e ogni classe, svolge la funzione che gli compete nel modo migliore.
Già all’inizio, nel primo libro, Socrate sprona i suoi amici a dare una definizione della giustizia e da subito si nota come si succedano delle tesi contrapposte che incarnano le opinioni diffuse dalla maggioranza degli uomini: secondo l’anziano Cefalo, incarnazione della tipica mentalità dell’uomo d’affari, la giustizia è identificabile con “la restituzione di quanto si sia ricevuto da altri” (Platone, La Repubblica, libro I, 331c) mentre per Polemarco essa consiste nel portare giovamento agli amici e nel recare danno ai nemici.
E’ poi la volta del sofista Trasimaco, per il quale il concetto in questione si identifica con “l’utile del più forte” (Platone, La Repubblica, libro I, 338c) e in suo aiuto giunge Glaucone, che concorda sul fatto che l’istinto alla sopraffazione nell’uomo è primario; è, infine la volta di Adimanto che mette in dubbio l’esistenza degli dèi e, non crede, dunque, ad una loro eventuale ricompensa per l’uomo che in vita si è dimostrato giusto.
Utilizzando la sua sottile ironia e la sua magistrale dialettica, Socrate confuta ad una ad una queste tesi e porta pian piano i suoi interlocutori a riconoscere come, in realtà, la giustizia sia la virtù per eccellenza.
La prima teoria ad essere assolutamente smontata è quella secondo cui è giusto restituire ciò che ci è stato dato dagli altri uomini; per far ciò l’astuto maestro porge agli interlocutori un esempio inequivocabile di come tale definizione non possa valere in qualunque circostanza: infatti se una persona sana di mente ha prestato delle armi ad un amico e dopo un certo periodo di tempo, impazzito, le rivuole indietro, non si può di certo affermare che la restituzione di quegli oggetti sia un’azione giusta. Risulta perfettamente chiaro, quindi, che la massima esposta da Cefalo non costituisce un criterio estensibile ad ogni azione giusta, e neppure il suo contenuto può esser considerato giusto in ogni circostanza.
Polemarco ha in un certo senso generalizzato la definizione data precedentemente da Cefalo, perché ha esteso il suo concetto di giustizia, ossia quello secondo cui occorre essere buoni con gli amici e cattivi coi nemici, anche al campo della politica, della guerra e in generale di ogni azione compiuta nell’esistenza. Socrate interroga incessantemente Trasimaco: se il giusto è l’utile del più forte, e questi, sbagliando, ordina ciò che gli sembra utile ma in realtà non lo è, coloro che gli ubbidiscono in realtà non fanno l’utile del più forte, ma soltanto ciò che dal più forte è stimato tale.
Ma l’astuto interlocutore non cade nella trappola preparatagli dal sapiente e precisa che secondo lui il più forte è colui che è estremamente competente e non commette errori e riesce a rimanere al governo proprio per questo, stabilendo il giusto come il suo utile.
Socrate allora sposta la discussione sul piano che riguarda le professioni e le tecniche e porta l’esempio del medico che esercita la sua professione nell’interesse dei suoi sottoposti garantendone la guarigione; e lo stesso faranno i pastori con il loro gregge e, dunque, risulterà chiaro che anche i governanti dovranno assicurare non il proprio utile ma quello dei sudditi.
Trasimaco obietta che in realtà queste tre categorie esercitano la loro professione soltanto per il proprio guadagno. I giusti, continua Trasimaco, perdono sempre confrontandosi con gli ingiusti; sono questi ultimi, infatti, i veri detentori della felicità. Colui che riesce a far valere sempre il proprio utile senza farsi scoprire, ad esempio il tiranno, non solo non sarà sottoposto alle punizioni dei tribunali, ma verrà addirittura ritenuto dagli altri uomini come un uomo felice e beato.
Nella visione di Trasimaco la giustizia è, quindi, una “nobile semplicità di carattere”(Platone, La Repubblica, libro I, 348c) mentre il suo contrario può essere definito come “avvedutezza” (Platone, La Repubblica, libro I, 348d) .
E’ a questo punto che Socrate può gettare la sua carta vincente per dimostrare come il suo interlocutore sia in realtà incappato in una contraddizione; chi è buono e sapiente non vorrà mai soverchiare il suo simile ma soltanto il suo dissimile e lo stesso vale per il giusto, mentre chi è cattivo e incolto cercherà di soverchiare tutti. Risulta allora evidente che il giusto somiglia al sapiente e al buono mentre l’ingiusto è accomunabile al cattivo e all’incolto.
Glaucone attacca l’affermazione di Socrate secondo la quale la giustizia è una garanzia per la stabilità e la coesione sociale; gli uomini, secondo lui, si costituiscono in società per paura, per fragilità e cercano di bandire l’ingiustizia attraverso l’istituzione delle leggi, ma in realtà in questo modo fanno violenza alla loro stessa natura che è e resta sempre aggressiva.
Questa posizione anticipa il contrattualismo nella versione datagli da Hobbes, poiché sostiene che il patto di giustizia, che gli uomini stipulano tra loro, è in realtà una sorta di compromesso, una convenzione alla quale ci si sottomette per paura delle conseguenze; a dimostrazione di ciò vi è il fatto che, per Glaucone, qualunque uomo, se fosse sicuro di non venir mai scoperto a commettere ingiustizia, continuerebbe a perseguirla senza il minimo scrupolo di coscienza perché la sua natura, come dimostra il mito dell’anello di Gige, lo porta sempre alla sopraffazione.
Adimanto si riallaccia a questo discorso sostenendo che, se dobbiamo credere alla lezione dei poeti circa le divinità, che ci insegnano come il favore di queste ultime possa essere procurato attraverso sacrifici e doni, deve altrettanto risultare evidente il fatto che sarà maggiormente l’ingiusto a godere della loro benevolenza, proprio in virtù del fatto che ha accumulato, grazie alla pratica della sopraffazione, molte più ricchezze degli altri. La giustizia, quindi, non viene perseguita e amata per se stessa, ma solo per le ricompense e per la buona reputazione che essa arreca.
In un certo senso Glaucone e Adimanto stanno chiedendo a Socrate di fornire un’argomentazione razionale sulla giustizia, dimostrando che essa è un obbligo morale per l’individuo e che è auspicabile per se stessa.
A questo punto Socrate inverte la rotta e sostiene la necessità di definire prima che cos’è la giustizia nella polis, per poi ritornare al discorso che riguarda il singolo individuo, visto che le due cose, ai suoi occhi, devono coincidere.
Dopo aver parlato di come nasce uno Stato e da che cosa deve essere composto, Socrate dà una prima definizione di giustizia sostenendo che, in un certo senso, essa consiste nello svolgere una sola attività e, nello specifico, quella per cui la natura ci ha chiamato; riemergono le attitudini specifiche di ogni cittadino all’interno della città giusta che implicano una rigida divisione del lavoro che non ha fini economici ma prevalentemente morali.
La polis giusta è, dunque, quella nella quale le tre categorie di cittadini svolgono i propri compiti dando la linfa vitale all’intero organismo della società attraverso la sapienza, il coraggio e la temperanza.
A questa tripartizione dello Stato, ne deve corrispondere una dell’anima del singolo individuo: vi è una parte volta verso la conoscenza, un’altra che ci spinge all’azione e, infine, una parte che cerca di soddisfare gli appetiti. L’uomo giusto sarà allora quello in cui la parte razionale, sostenuta da quella animosa, riuscirà a dominare sulla parte concupiscibile.
Detto ciò, Socrate può affermare che la vera giustizia è intimamente connessa all’armonia dell’anima del singolo; essa consiste nell’ “esplicare i propri compiti” (Platone, La Repubblica, libro IV, 333b) ed è, quindi, la capacità di autogovernarsi: per questo il giusto è anche felice e in pace con se stesso e con il mondo.
Sintetizziamo, infine cos'è la giustizia per Platone affidandoci alle sue parole:

“adempire i propri compiti non esteriormente, ma interiormente, in un’azione che coinvolge veramente la propria personalità e carattere, per cui l’individuo non permette che ciascuno dei suoi elementi esplichi compiti propri di altri né che le parti dell’anima s’ingeriscano le une nelle funzioni delle altre; ma, instaurando un reale ordine nel suo intimo, diventa signore di se stesso e disciplinato e amico di sé medesimo e armonizza le tre parti della sua anima". (Platone, La Repubblica, libro IV,443 c-d)


ESERCIZI:

1) Definisci i concetti di: saggezza,coraggio, temperanza e giustizia.

2) Quante e quali sono, secondo Platone, le classi sociali?

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Edurete.org Roberto Trinchero